TISCALI.IT: LA STRAGE DI NASSIRIYA SI POTEVA EVITARE. LA SENTENZA: “CLAMOROSI ERRORI E IRRESPONSABILI ASSURDITÀ”

martedì 14 febbraio 2017

di Giuseppe Caporale e Luca Comellini  - 13 febbraio 2017

Il Sismi avvisò dell’attentato, indicando perfino il colore dell’autocisterna che avrebbe attaccato. Molte vittime morirono perché colpite dalle schegge del deposito munizioni della base che era mal posizionato

La strage di Nassiriya si poteva evitare. L’autocisterna che il 12 novembre del 2003 irruppe nella base militare italiana in Iraq e uccise 19 italiani (12 carabinieri, 5 soldati dell’esercito e due civili) e nove iracheni, poteva essere fermata. 

Sarebbe bastato non compiere una serie di “errori”, uno dei quali “clamoroso” e altre “irresponsabili assurdità”.

E’ questa la verità scritta, nero su bianco, nell’ultima sentenza su una delle tragedie che ha segnato la storia recente del nostro Paese.

Si tratta di un pronunciamento di diritto civile che riscrive l’intera vicenda, dopo che la procura militare di Roma non ha presentato ricorso davanti all’assoluzione in secondo grado dei vertici finiti all’epoca sotto processo penale. Spalancando così le porte all’assoluzione ormai definitiva.

Ma il processo civile, invece, è riuscito ad andare avanti e il generale dell’esercito Bruno Stano (in pensione) ora è stato condannato a risarcire le vittime. Occorrerà un altro procedimento giudiziario per stabilire gli esatti importi economici a meno che il ministero della Difesa non si decida ad intervenire e risarcire direttamente i familiari che da 13 anni sono alle prese con questa odissea giudiziaria, finita troppo lontano dai riflettori della grande informazione.

A leggere le motivazioni depositate dalla Corte d’Appello di Roma lo scorso 8 febbraio si scoprono verità sorprendenti e l’esistenza di documenti rimasti sepolti per anni.

I giudici della 1 sessione civile non hanno dubbi: “E’ manifesta la stretta dipendenza tra il reato commesso (dal generale Stano, ndr) e la morte e le lesioni riportate dalle vittime”.

“Il Sismi avvisò: ci sarà un attentato”

Si legge nella sentenza:  “Non può non essere ribadito, sul primo profilo il vero e proprio preavviso di pericolo concreto contro le basi italiane in Nassirya, dato dal "punto di situazione" del 5 Novembre, noto al comandante, secondo cui un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e Yemenita si sarebbe trasferito a Nassirya, risultato ex post tragicamente veridico vedi le dichiarazioni del terrorista S.M.A.H. circa la base italiana scelta, quale obbiettivo, dopo sopralluogo, per la sua palese vulnerabilità. Si devono, allora, ricordare anche i messaggi del Sismi del 23 ottobre: un attacco ad un obbiettivo al massimo entro due settimane. E del 25 ottobre, con precisione fin nei colori del mezzo: un camion di fabbricazione russa con cabina più scura del resto. Qui si deve rilevare l'evidente sottovalutazione, in capo allo Stano, comandante prò tempore, di un allarme così puntuale e prossimo”.

“L’errore clamoroso: base indifesa”

Prosegue il dispositivo: “Tale allarme si colloca, temporalmente, una settimana prima del tragico evento: ben c'era possibilità, dunque, di predisporre utilmente qualche maggior contrasto anche temporaneo. In ordine all'aspetto della complessiva insufficienza delle difese passive, il dato è certo e clamoroso. Né lo nega la sentenza impugnata che rileva quel che era sotto gli occhi di tutti (sul punto la sentenza ingiustamente svilisce le precise e corrette dichiarazioni del Colonnello Burgio, ma anche del Colonnello Perrella: la situazione sul campo era anche più grave di quanto già non apparisse sulla carta). Mancanza di un'area di rispetto, inesistenza di una serpentina, hesco bastion troppo bassi e riempiti di ghiaia anziché di sabbia, così essendo chiaramente insufficienti e passibili di trasformarsi in proiettili (come per le munizioni della riservetta) anziché  avere  effetto  protettivo”.

“Irresponsabile assurdità: alcuni morirono per l’errata disposizione del deposito munizioni”

Proseguono i giudici: “Anche  quanto  alla riservetta (deposito munizioni, ndr) la sentenza precedente appare inadeguata, disattendendo la questione con una generica affermazione di concreta irrilevanza, mancando con ciò di confrontarsi - per non dire errando sul punto - con gli esiti delle indagini medico-legali che rilevavano come alcune vittime fossero state colpite da proiettili esplosi ma non sparati, il che rimanda proprio alla riservetta esplosa per l'innesco causato dall'esplosione del camion-bomba. Sullo specifico punto, anche un estraneo alle arti militari dovrà rilevare l'irresponsabile assurdità della collocazione così esposta di un deposito di munizioni”.

“Il generale voleva trasferire la base”

Prosegue il dispositivo: “Tanto è poco vero che lo Stano sarebbe stato colposamente inattivo solo per ordine superiore, per attuare le direttive di una presenza soprattutto umanitaria (come sostiene la sentenza impugnata), che egli stesso, nel suo interrogatorio riferiva di aver emanato in data 22 ottobre 2003 la direttiva FRAGO 109/031 con la quale si disponeva il progressivo trasferimento di alcune basi del nostro contingente verso aree più sicure. Dunque, piena consapevolezza dei rischi imminenti; percezione della necessità addirittura del trasferimento (non attuato). E non vero che la direttiva gerarchica-politica imponesse la permanenza necessitata in posizione di rischio, tra la gente del posto. Non solo, ancor più era necessario innalzare, nel frattempo e nel possibile, le difese passive, in nulla attuate”. E prosegue la sentenza: “E non è chi non veda - e qui la responsabilità dello Stano si fa stringente - come il tutto si leghi con il profilo appena rilevato della riduzione del rischio: non si trattava del trasferimento in blocco dell'intera base (o delle due basi), né di installare provviste invadenti, ma della predisposizione, in prospettiva temporanea, di mezzi più efficaci di protezione passiva, secondo semplici prudenze, quali hesco bastion più alti e riempiti a regola d'arte (con sabbia), area di protezione, serpentina; ma anche temporanei posti di blocco, od anche la chiusura del ponte e della via. Ciò era imposto - se si vuole - proprio da una adeguata valutazione del rischio preannunciato e pressoché sicuro, ma ciò era anche, per la sua limitata temporaneità, fino al rientro dell'allarme specifico, di accettabile impatto per la popolazione locale. Anche sul punto (non turbare la popolazione locale con aspetti troppo militaristici) non può non rilevarsi come la sentenza pretermetta, fino ad ignorare, il dato certo dei continui contatti dei comandi italiani con quelli locali, il che ben poteva consentire, proprio nel dichiarato intento di una fruttuosa collaborazione, di predisporre il necessario in termini di sicurezza con buona accettazione reciproca. E' - ancora una volta - la sentenza di primo grado (v. f. 68) a ricordare come il 28 ottobre 2003, a due settimane dal tragico evento, vi fu un incontro tra i comandi locali e quelli italiani (che lo Stano ha ammesso), incontro in cui si parlò proprio dei sempre più ricorrenti allarmi: occasione persa, in tale prospettiva, che non può non gravare, per quel che qui rileva, sui comandi italiani, e dunque sullo Stano”.

“Una condotta virtuosa del generale avrebbe evitato la strage”

“Ed allora: un siffatto operare - il comportamento virtuoso che si richiede a chi presiede una posizione di garanzia - sicuramente avrebbe, secondo regole di comune e condivisa esperienza, ridotto il rischio in sé o, quam minus, ridotto gli esiti di danno, perché il camion bomba, costretto a fermarsi prima, non avrebbe cagionato la strage poi in realtà causata.

Va in proposito ripresa, e fatta nostra, la corretta osservazione del giudice di primo grado secondo cui l'impiego di un secondo attentatore, oltre il necessario autista del camion-bomba, fu previsto dai terroristi in funzione di mitragliatore, perché era evidente che unico ostacolo poteva essere solo il Carabiniere della postazione (OMISSIS), altrimenti vi era via libera fino alla palazzina”.

Prima di concludere, è giusto ricordare le vittime di quella strage. Uno per uno, nome per nome.

PIETRO PETRUCCI: 22 anni, di Casavatore (Napoli), caporale dell'esercito. Ne era stata dichiarata la morte cerebrale poche ore dopo la strage. Poi è stata staccata la spina della macchina che lo teneva in vita. Petrucci era un volontario in ferma breve e in missione in Iraq con l'incarico di conduttore di automezzi.

DOMENICO INTRAVAIA:46 anni, di Monreale, appuntato dei Cc in servizio al comando provinciale di Palermo; sposato e con due figli di 16 e 12 anni. Lasciò anche l' anziana madre, il fratello gemello e due sorelle. Era partito per l'Iraq quattro mesi prima e sarebbe dovuto rientrare dopo tre giorni. Era già stato in missione a Sarajevo. I due figli tenevano un calendario da cui cancellavano i giorni che mancavano al ritorno del padre. La notizia ha gettato la moglie nella disperazione: «Voglio morire, senza mio marito la mia vita non ha senso».

ORAZIO MAJORANA:29 anni, di Catania, carabiniere scelto in servizio nel battaglione Laives-Leifers in provincia di Bolzano. L'anziano padre ha appreso la notizia in Svizzera, dove si trovava per sottoporsi ad alcune visite mediche.

GIUSEPPE COLETTA: 38 anni, originario di Avola (Siracusa) ma da tempo residente a San Vitaliano, in Campania, vicebrigadiere in servizio al comando provinciale di Castello di Cisterna (Napoli); sposato e padre di una bambina di due anni.

GIOVANNI CAVALLARO: 47 anni, nato in provincia di Messina e residente a Nizza Monferrato, maresciallo in servizio al comando provinciale di Asti. Era noto con il soprannome di 'Serpicò. Lasciò la moglie e la piccola Lucrezia, 4 anni. Era già stato impegnato in altre missioni in Kosovo e in Macedonia. Era da tre mesi in Iraq e stava per rientrare a casa. La sera prima aveva telefonato alla moglie: «Sto preparando la mia roba, sabato finalmente torno da te e da Lucrezia. Ho voglia di abbracciarvi».

ALFIO RAGAZZI: 39 anni, maresciallo dei carabinieri in servizio al Ris di Messina, sposato e con due figli di 13 e 7 anni. Era partito in luglio e sarebbe dovuto rientrare a Messina il sabato successivo: i familiari stavano già preparando la festa. Era specializzato nelle tecniche di sopralluogo e rilevamento e il suo compito era quello di istruire la polizia locale.

IVAN GHITTI: 30 anni, milanese, carabiniere di stanza al 13/mo Reggimento Gorizia. Era alla sua quarta missione di pace all'estero, dopo essere stato tre volte in Bosnia. Lasciò i genitori e una sorella.

DANIELE GHIONE: 30 anni, di Finale Ligure (Savona), maresciallo dei carabinieri in servizio nella compagnia Gorizia. Era Sposato da poco. Era stato ausiliario dell' Arma, poi si era congedato e iscritto all' Associazione carabinieri in congedo. Era ritornato ad indossare la divisa vincendo un concorso per maresciallo.

ENZO FREGOSI:56 anni, ex comandante dei Nas di Livorno dove viveva con la famiglia. Lasciò moglie e due figli, un maschio, anche lui carabiniere, e una ragazza che studiava all'Università. Era partito per l' Iraq il 17 luglio scorso e stava rientrare in Italia. Anche casa sua stavano già preparando la festa per il suo ritorno.

ALFONSO TRINCONE:44 anni, era originario di Pozzuoli (Napoli) ma risiedeva a Roma con la moglie e i tre figli. Il sottufficiale era in forze al Noe, il Nucleo operativo ecologico che dipende dal Ministero dell' Ambiente.

MASSIMILIANO BRUNO: 40 anni, maresciallo dei carabinieri di origine bolognese, biologo in forza al Raggruppamento Investigazioni scientifiche (Racis) di Roma. Viveva con la moglie a Civitavecchia.

ANDREA FILIPPA: 33 anni, torinese, carabiniere dall' età di 19. Era esperto di missioni all' estero che lo tenevano costantemente lontano da casa. Prestava servizio a Gorizia presso il 13/o Battaglione Carabinieri. Viveva a San Pier D' Isonzo insieme alla giovane moglie, sposata nel 1998.

FILIPPO MERLINO:40 anni, originario di Sant' Arcangelo (Potenza), sposato. Con il grado di maresciallo comandava la stazione dei carabinieri di Viadana (Mantova). È morto nell'ospedale di Nassirya dove era stato portato gravmente ferito.

MASSIMO FICUCIELLO:35 anni, tenente dell'esercito, figlio del generale Alberto Ficuciello. Funzionario di banca, aveva chiesto di poter tornare in servizio attivo con il suo grado di tenente proprio per partecipare alla missione «Antica Babilonia». Grazie alla sua conoscenza delle lingue era stato inserito nella cellula Pubblica Informazione del col.Scalas. Aveva avuto l' incarico di accompagnare nei sopralluoghi i produttori di un film-documentario sui «Soldati di pace». Prima dell' attentato, il titolo, provvisorio, era stato cambiato in «Babilonia terra fra due fuochi».

SILVIO OLLA: 32 anni, dell' isola Sant' Antioco (Cagliari), sottufficiale in servizio al 151/o Reggimento della Brigata Sassari. Figlio di un maresciallo e fratello di un carrista. Laureato in Scienze Politiche, Olla era in forza alla cellula Pubblica Informazione. È morto insieme al tenente Ficuciello mentre accompagnava nei sopralluoghi i produttori del film. La conoscenza dell' inglese e dei rudimenti dell' arabo lo avevano fatto diventare uno dei punti di riferimento per i giornalisti.

EMANUELE FERRARO: 28 anni, di Carlentini (Siracusa), caporal maggiore scelto in servizio permanente di stanza nel 6/o Reggimento trasporti di Budrio (Bologna).

ALESSANDRO CARRISI: 23 anni, di Trepuzzi (Lecce), caporale volontario in ferma breve, anche lui in servizio nel 6/o Reggimento trasporti di Budrio. Era partito per l' Iraq da poche settimane. Lasciò i genitori, un fratello e una sorella.

LE DUE VITTIME CIVILI - Nell'attentato sono state coinvolte anche due civili. Si tratta dell'aiuto regista Stefano Rolla, 65 anni di Roma, che stava facendo i sopralluoghi per un film documentario che avrebbe dovuto girare il regista Massimo Spano e di Marco Beci, 43 anni, funzionario della cooperazione italiana in Iraq.

http://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/strage-Nassiriya-sentenza-errori/


Tua email:   Invia a: