LE FORZE DELL’ORDINE TRA SUICIDI, OMICIDI E VIOLENZA SUBITA (da bergamonews.it)

martedì 08 novembre 2022

Che cosa unisca il fatto della violenza alla poliziotta al momento di rientrare in casa, il collega che si suicida e quello che uccide il proprio comandante, sono certo sia una chiamata in causa del contesto sociale nel riaffermare stima e fiducia per chi porta una divisa, divisa che se intimorisce però non protegge da crisi esistenziali e dal risolverle facendo ricorso a fatti impropri e non ripetibili come strumento per superare le personali difficoltà.

Nulla sembra fermare la marea della morte delle persone in divisa per suicidio, omicidio, violenza subita, in una catena di morte che crea nuovi adepti e nuove modalità di attuazione. Sono di questi giorni la notizia della violenza attuata nei confronti di una poliziotta nelle vicinanze della caserma a fine turno, mentre si recava alla sua macchina per rientrare a casa a fine servizio, e l’omicidio commesso in caserma da un brigadiere nei confronti del suo comandante. Questi fatti mi spingono a cercare di individuare i possibili motivi che inducono, chi porta una divisa, al suicidio attuato, all’omicidio nei confronti del proprio superiore, ma anche alla violenza costantemente ricevuta da parte di terzi, considerazioni in parte già espresse in un mio precedente articolo.

In quell’articolo annoveravo fra le cause del suicidio in divisa fatti relativi ad indebitamento, disarmonia familiare, disturbi psichici sorti dopo l’arruolamento; ora aggiungo lo stress da lavoro in divisa patito da operatori dello Stato che come mandato istituzionale la difesa del cittadino da altri cittadini malintenzionati, e lo faccio chiedendomi cosa si fa per difendere questo operatori dalle continue angherie che subiscono, considerato anche che spesso non fanno notizia in quanto considerate situazioni connessi alla funzione ed al compito di tutori della legalità e sicurezza sociale. Subire costantemente vessazioni e nel contempo trasmettere di essere presenti e attivi e vigili per proteggerci e proteggersi, crea uno stress esponenziale che deve trovare un punto di sedazione del dolore, affinché non si trasformi in fatto personale da vivere in solitudine, anche se la maggior parte di essi vive in famiglia.

Certo, sappiamo che i fattori di problematiche familiari vengono indicati come la categoria preminente nella decisione suicidarie, così come il fattore indebitamento economico e quello di malattia psichica; sono tutti fattori che allontanano dalla realtà per una fuga verso il desiderato o l’inappagato a cui non risponde un momento di attenzione, comprensione, apprezzamento, un quel sentirsi dire bravo, grazie, vai bene, considerato che quello che un suicida si aspetta dal suo atto è la visibilità e giustizia per quanto patito.

Dall’articolo precedente il numero dei suicidi in divisa è salito da 57 a 62 e non cambia solo il numero che aumenta, cambia anche la modalità e il luogo dove attuare il suicidio. Parliamo di suicidi ripetitivi, quasi programmati, che rispecchiano una modalità nota e si richiamano, pressoché concatenati, per questo dovrebbero suscitare interessamento e preoccupazione. Se i primi suicidi dell’anno avevano come strumento la pistola d’ordinanza ed un luogo sicuro come la caserma o il posto di servizio, i recenti suicidi, forse memori di quelli precedenti che davano scarsa visibilità, o una visibilità estemporanea e poco o nulla sul lato dell’ottenere giustizia, hanno scelto diverse modalità di fine vita, non più legata a un luogo sicuro e conosciuto ma uno aperto e visibile ai molti come la pubblica via, fatto questo che è riservato al fatto omicidiario. Non è più un momento silente dove il suicida lascia ad altri il compito di rendere giustizia, ma lo attua di persona con una denuncia scritta e dettagliata dei torti subiti e delle umiliazioni in carriera correlate da perdita economica.

Anche il mezzo non è più notoriamente individuato nell’arma di servizio (che comunque ritorna a pieno titolo quando si attua l’omicidio del superiore, pur essendo in via precauzionale stata ritirata), ma attua il suicidio con l’impiccagione. Ciò che persiste è la volontà di porre fine alla propria vita, ritenendo il suicidio l’unico modo per attuare considerazione e giustizia a quanto di negativo opprime; ebbene se cambiano le modalità di attuazione sia del suicidio che dell’omicidio, rimangono comunque intatti i fattori, precedentemente elencati, che lo inducono, ed a evento compiuto non è semplice creare un’azione consequenziale delle quattro, si va per ipotesi, generalmente si accoglie la tesi più vicina al nostro modi di vedere e di giudicare e si accolgono quelle che appaiono le più accettabili: quelle dell’affettiva familiare e quella del disturbo psichico sorto dopo l’arruolamento, in quanto più strettamente personali e che ci potrebbe rendere individualmente responsabili.

Davanti a queste tragedie la risposta che viene dal contesto sociale ed istituzionale è univoca ed è la stessa: “nulla faceva prevedere…”, risposta che ha una connotazione di tipo assolutoria. Credo, invece, che i quattro fattori fondamentali, affettività, indebitamento, conflittualità sul lavoro, e disturbo psichico, siano sempre presenti, la difficoltà, sta nel capire la fondatezza e ampiezza individuale di ciascun fenomeno e quale sia il preminente per provocare suicidio o omicidio. Per capire questo bisogna risalire nel tempo quando i quattro fattori erano ben visibili e codificabili non a posteriori. Le analisi e i giudizi devono attuarsi all’ insorgere del problema/disturbo, e tanto meno al momento del suicidio. A suicidio attuato, per chi resta, tutto appare molto nebuloso e non di facile lettura nel capire quali dei quattro motivi indicati è stato quello prioritario o quello semplicemente scatenante.

L’unica certezza è quella che questa catena di morte crea nuovi adepti e nuove modalità di attuazione e sembra per il momento instradata a non fermarsi; certamente non terminerà se non si introdurrà un elemento forte che scombini il contesto attuale in cui si sviluppa il processo suicidario, da attuare con un cambiamento del modello organizzativo delle forze dell’ordine, pieno di prassi vetuste e non più conformi alla vita attuale. Occorre cambiare le modalità di esplicitare l’ordine e creare un luogo dove poter portare il personale disagio, nel rispetto dell’anonimato, che avviene attuando momenti di incontro dentro la struttura militare o con convenzioni con professionisti, che conoscano l’ambiente di lavoro di chi si presenta, ma anche in modo che rimanga lontano dal posto di lavoro onde evitare atteggiamenti stigmatizzanti.

Cosa unisca il fatto della violenza alla poliziotta al momento di rientrare in casa, il collega che si suicida e quello che uccide il proprio comandante, sono certo sia una chiamata in causa del contesto sociale nel riaffermare stima e fiducia per chi porta una divisa, divisa che se intimorisce però non protegge da crisi esistenziali e dal risolverle facendo ricorso a fatti impropri e non ripetibili come strumento per superare le personali difficoltà.

La situazione attuale deve pertanto portare a considerare, come un tempo, che la persona in divisa rappresenta non solo un simbolo di sicurezza e protezione, ma elemento importante della vita civile, alle quali va la nostra stima e fiducia.

(di Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’Amministrazione Penitenziaria, in quiescenza).

 

Fonte: https://www.bergamonews.it/2022/11/04/le-forze-dellordine-tra-suicidi-omicidi-e-violenza-subita/556576/

 

 

 

 


Tua email:   Invia a: