SENTENZA 672/2003 DEL TRIBUNALE DI LECCE. MOBBING, DEMANSIONAMENTO E REATO DI ABUSO D’UFFICIO, UN’IPOTESI APPLICABILE ANCHE AL MONDO MILITARE. di Prometeo

giovedì 15 aprile 2004

La Sentenza della II Sezione del Tribunale Penale di Lecce, depositata l’11 febbraio 2004, si rivela di notevole importanza non solo per l’ampiezza e il dettaglio dei principi di diritto trattati ma soprattutto perchè, rifacendosi a precedenti della Corte di Cassazione in tema di reato di abuso d'ufficio (Sentenze 500 / 1999 delle Sezioni Unite, VI Sezione 27.10.1999 Stagno D'Alcontres, 24.2.2000 - 19.4.2000 Genazzani riguardante proprio un caso di demansionamento, 9.2.1998 Mannucci) consolida un indirizzo interpretativo che si avvia ad essere oramai ius receptum.

In particolare, quattro sono le osservazioni da farsi.

PRIMA OSSERVAZIONE. La sentenza stabilisce che il danno ingiusto che integra l'evento di reato punito dall'art.323 cod. pen. è insito, nel particolare caso di condotte mobbizzanti e/o demansionanti, nello stesso fatto storico costituito dal mobbing e/o dal demansionamento, dai quali possono peraltro conseguire, solo “quale ulteriore conseguenza”, e non già quale unico evento di reato, patologie rilevanti dal punto di vista medico - legale. Viene quindi avvalorata anche dal giudice penale la tesi, ampiamente recepita dalla giurisprudenza civile, del cosiddetto “danno in re ipsa”, locuzione con la quale si intende significare che la concreta dimostrazione del danno non patrimoniale, cagionato alla persona del lavoratore da condotte ed eventi vessatori, non abbisogna di particolare dimostrazione quanto alla sua esistenza, proprio perché, sulla base delle massime di comune esperienza che costituisce comune patrimonio conoscitivo di tutti i consociati (art.115 c.2 c.p.c.), per dimostrare la sussistenza, in capo al cd. mobbizzato, dello stato soggettivo di turbamento dell'animo, di avvilimento, di disagio e di frustrazione che notoriamente sostanzia il danno non patrimoniale causato da vessazioni sul posto di lavoro, non occorrono altri ed ulteriori elementi probatori rispetto al semplice e solo evento che ha prodotto la lesione del diritto all'integrità fisica ed al patrimonio morale del lavoratore (art.2087 codice civile).

SECONDA OSSERVAZIONE. Il mobbing, nella fattispecie di cui si è occupata la sentenza, è stato ampiamente riscontrato (ed il tenore letterale della motivazione della sentenza fa trasparire una certa sicurezza: “Il mobbing, appunto, chiamato in causa da uno dei testi del processo,pare attagliarsi perfettamente al caso di specie”) non rispetto ad una lunga o abnorme sequenza di eventi e condotte vessatorie, ma in relazione a soli tre provvedimenti amministrativi di impiego (richiamati nell'epigrafe della sentenza; provvedimenti 15.9.1997, 26.12.1997, 31.12.1997, di nuovo sintetizzati alle pagg.10 ed 11).

TERZA OSSERVAZIONE. Anche la stessa violazione di una mera circolare amministrativa (nella fattispecie della sentenza in argomento, la nr.300/A/26467/110/26 datata 25.9.1997 del Ministero dell'Interno), e non già di un regolamento adottato con la procedura dell'art. 17 legge 400/1988, (procedura di approvazione che, secondo parte della dottrina, renderebbe l'inosservanza dell'atto di normazione secondaria penalmente rilevante ai fini della consumazione del reato in argomento) è stata ritenuta sussumibile nel parametro legale contemplato dall'art.323 cp.

QUARTA OSSERVAZIONE. Non meno importante dei precedenti è il rilievo concernente la prova del dolo intenzionale che, secondo la nuova fattispecie legale dell'abuso d'ufficio (a seguito dell'entrata in vigore della nota Legge 234 / 1997), deve presiedere alla condotta abusiva posta in essere dall'agente. Il Tribunale pugliese giunge a dimostrare la sussistenza di tale tipo di dolo per esclusione, laddove non venga allegato e provato il perseguimento, concreto e riscontrabile, di un serio e plausibile interesse pubblico. E, nelle fattispecie concernenti il demansionamento e/o il mobbing, il dolo intenzionale è veramente provato senza possibilità di alcuna incertezza, proprio per le stesse caratteristiche intrinseche delle condotte vessatorie.

Infatti, nell'ipotesi di mobbing non v'è chi non veda la sussistenza di tale forma di dolo, sol che si consideri il fatto che certamente non rientra fra gli interessi pubblici dell'amministrazione tenere nelle sue fila un dipendente maltrattato, moralmente prostrato, che proprio per tali ragioni può dare all'amministrazione datrice di lavoro un rendimento che sicuramente è inferiore alle aspettative ed alle sue stesse potenzialità.

Nell'ipotesi di demansionamento, poi, ancora più cervellotica e bizzarra sarebbe la tesi difensiva del cd. “mobber”, il quale avrebbe costretto il demansionato a svolgere mansioni di più scarso rilievo al fine di perseguire un veramente inimmaginabile interesse pubblico a vedere depotenziate le risorse umane dell'amministrazione e depauperato il patrimonio professionale a seguito del mancato suo utilizzo.

La sentenza del Tribunale di Lecce, inoltre, non esaurisce l'intera Giurisprudenza del Supremo Collegio concernente la rilevanza penale, sub specie di abuso d'ufficio, del demansionamento perpetrato ai danni di un dipendente dello Stato. Infatti, oltre alle pronunzie ivi citate, la Corte di Cassazione ha emanato, proprio sullo specifico tema, le sentenze:

a)                  V Sez. 12 febbraio 1999, Sanna, pubblicata in “Rivista Penale”, 2000, II;

b)                 VI Sez., 16 marzo 1995 nr.2468, Mangione, pubblicata in “Zacchia”, 1997, 112.

Dopo aver letto questa breve ed esemplificativa rassegna giurisprudenziale, qualcuno potrebbe eccepire il solito vecchio argomento della apparente inestensibilità di taluni diritti e garanzie di cui godono i cittadini cosiddetti “civili” anche ai militari: “Sì, d'accordo, i ragionamenti del giudice penale sono fondatissimi ma noi siamo militari, c'è lo status militare, non possiamo …, non chiediamo …, etc. etc.”.

Noi riteniamo che tali argomenti siano completamente privi di fondamento giuridico. Milita a favore della nostra opinione innanzitutto lo stesso diritto positivo, che, agli artt. 3 e 23 della legge 382/1978, agli artt.1, comma 2, e 28 DPR 18.7.1986 nr. 545 - Regolamento di disciplina militare - sono oltremodo chiari nel riconoscere tutte le garanzie di esercizio di diritti costituzionalmente previsti anche ai cittadini militari. E quindi, in primis, i diritti previsti dagli artt.2, 3, 21, 32, 35, 97, 111 e 113 della Costituzione.

Diritti, quelli appena richiamati, che possono essere compressi nel loro concreto esercizio, ma solo al concomitante verificarsi delle seguenti tre condizioni:

1)                  che le limitazioni vengano sancite da una legge ordinaria o da un atto avente rango e/o forza di legge (cd. riserva di legge assoluta);

2)                  che le limitazioni in argomento, ancorché ipoteticamente contemplate da una norma di legge ordinaria, siano ragionevolmente compatibili con il complessivo assetto costituzionale dei diritti e degli interessi della persona umana;

3)                  che le medesime limitazioni vengano per di più riprodotte anche nel testo del regolamento di disciplina militare (si veda, al riguardo, cosa dice l'art.1, comma 2, del DPR n. 545/1986).

L'argomento, acriticamente invocato da coloro che probabilmente non tengono molto al riconoscimento dei diritti al personale militare è stato smentito da tempo non solo da parte della più avveduta dottrina (Poli, Tenore ed Autori) ma dalla stessa giurisprudenza, sia amministrativa, sia costituzionale.

In particolare, la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 449/1999, n. 332/2000 e n. 445/2002, quest’ultima reperibile sul sito www.altalex.it con commento dell'avvocato Vittorio Triggiani del foro di Bari) ha definitivamente chiarito che “i diritti fondamentali del cittadino militare non recedono di fronte alle esigenze della struttura militare”.

Se fra i diritti fondamentali di cui parla il Giudice delle Leggi nessuno può mettere seriamente in discussione che vi siano annoverati proprio quei diritti, inviolabili per espresso disposto costituzionale (art. 2), alla tutela della dignità personale e del benessere psico-fisico complessivamente inteso, all'accrescimento della propria professionalità (soprattutto nell'attuale contesto sociale), alla serenità morale; se quindi questi diritti sono riconosciuti anche ai militari (e ci voleva la Corte Costituzionale per dirlo e ribadirlo!), se lo stesso diritto positivo (al quale l'interpretazione del giudice deve vincolarsi per espresso disposto dell'art.12 delle Disposizioni sulla legge in generale - cd. interpretazione letterale) impone all'interprete che non possono addursi limitazioni di esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, atteso che manca nel nostro ordinamento una specifica norma di legge che imponga deroghe a quanto sopra osservato, allora si dovrebbe dedurre che anche gli importantissimi principi di diritto penale enucleabili dalla allegata sentenza del Tribunale di Lecce sono, secondo noi, pacificamente applicabili anche alle fattispecie di mobbing e demansionamento che colpiscono i militari.

Chiarito ciò, si deve passare all'aspetto concernente il reato di abuso d'ufficio.

L'elemento materiale del delitto in argomento è, come sappiamo, la violazione di leggi e regolamenti al fine di intenzionalmente recare un vantaggio ingiusto o un danno ingiusto.

La domanda è: quale norma di legge e di regolamento viene violata, nell’ipotesi di militare del Corpo della Guardia di finanza che eventualmente risultasse sottoposto a mobbing e/o demansionamento?

Innanzitutto, possono venire in rilievo tre articoli della legge n. 382 del 1978:

·        l’art.3, comma 1 (estensione dei diritti costituzionali ai militari);

·        l’art. 15 (lo Stato favorisce le misure per l'innalzamento della preparazione professionale dei militari);

·        l’art. 17 (sono vietati i trasferimenti discriminatori e / o vessatori dei militari).

Quindi,  norme del DPR n. 545 del 1986:

·        l’ art. 1, comma 2, (estensione dei diritti costituzionali ai militari, con l'ulteriore garanzia che ogni possibile limitazione di esercizio deve trovare rigorosa previsione non solo nella legge ordinaria, ma anche nel Regolamento di disciplina militare);

·        l’art. 21, norma fondamentale in tema di mobbing e demansionamento per i militari.

Tale articolo, infatti, impone ai superiori gerarchici, con la forza vincolante tipica dei regolamenti militari (e quindi all'amministrazione militare che essi personificano, secondo il noto nesso di immedesimazione organica ex art. 28 Cost.) di garantire ai sottoposti:

-                     il diritto ad essere trattati con pari dignità (diritto rinvenibile anche nella legge 382/1978);

-                     il diritto allo svolgimento della vita militare in condizioni di benessere fisico e psichico (assai rilevante per la tutela della qualità esistenziale della propria vita);

-                     il diritto a non vedere pregiudicata, ma anzi a coltivare e accrescere sempre più la propria professionalità (rilevante ai fini del divieto di demansionamento);

-                     il diritto alla integrale tutela della propria salute fisica e psichica (da coordinarsi con l'art. 32 Cost. e con la clausola generale in tema di obblighi del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ., oltre che con la normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, ex D.lgs. 626/1994);

§         l’art. 28 D.P.R. 545 / 1986 (estensione dei diritti costituzionali ai militari.

Infine, vanno ricordati:

§         il decreto legislativo 12 maggio 1995 nr. 199, e successive modifiche e integrazioni (tra cui i decreti legislativi nn. 67 e 68 del 2001) in materia di rigorosa corrispondenza di determinate e precise mansioni ai vari gradi delle categorie non dirigenti del Corpo della Guardia di finanza (evidentemente rilevante ai fini del fenomeno del demansionamento, con riferimento sia agli Ispettori - art.34 -, sia ai Sovrintendenti - art.17 – e agli Appuntati e Finanzieri);

§         le Circolari emanate nel tempo dal Comando Generale del Corpo (anni 1996, 1997 e 2002) in materia di mansioni del suddetto personale militare. Circolari la cui inosservanza, secondo l’orientamento espresso nella sentenza in commento, potrebbe assumere rilevanza penale.

Come si può notare, sono numerosi gli argomenti letterali ed esegetici che portano al pieno e integrale riconoscimento dei diritti costituzionali inviolabili della persona anche al cives sub signis, rispetto alle eventuali vessazioni e/o demansionamenti che questi potrebbe subire durante ed a causa dell'espletamento della sua professione.

PROMETEO


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