GLI STIPENDI DEI PARLAMENTARI: ABOLIRE LA POSSIBILITÀ DI CUMULO E RIDURRE IL NUMERO (ANCHE PER RIDURRE LA CORRUZIONE) - da www.lavoce.info
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a cura di Vincenzo Galasso 18.05.2010
Dopo Cameron e Zapatero, anche il ministro Calderoli ha proposto di ridurre del 5 per cento gli stipendi di ministri e parlamentari. In Italia la proposta è stata accolta da giudizi contrastanti. I più favorevoli hanno evidenziato il valore simbolico della riduzione degli stipendi degli "alti papaveri". Per gli scettici, la proposta è semplicemente ipocrita: i costi della politica sono enormi non (solo) a causa degli stipendi dei parlamentari, ma anche per tutti gli altri servizi (legali e non) di cui i politici beneficiano e dei quali il contribuente è chiamato a pagare il conto.
Da tempo lavoce.info contribuisce a fornire un identikit dei politici monitorandone il costo economico dei politici, e la loro produttività in parlamento. I risultati sono poco confortanti ed anche la loro evoluzione nel tempo non lascia ben sperare. Ecco alcuni dati chiave:
- Dagli anni 90, l'indennità parlamentare di un deputato italiano è superiore a quella di un parlamentare statunitense, nel 2006 la differenza era del 20% circa. Eppure il livello di istruzione dei nostri parlamentari si è drasticamente ridotto nel corso degli anni.
- Ai deputati italiani è consentito di mantenere le loro attività professionali (ad eccezione dell'impiego in altre istituzioni pubbliche o private controllate dalla stato e per gli impieghi a tempo pieno). Questa possibilità di cumulo non è consentita negli Stati Uniti.
- Questo reddito extraparlamentare è associato ad un maggior assenteismo in Parlamento
Ben venga dunque la riduzione proposta da Calderoli, ma altre e più sostanziali riforme sono necessarie per migliorare per ridurre il costo, ma soprattutto per migliore il rendimento della politica:
1) l'abolizione della possibilità di cumulo
2) la riduzione del numero dei parlamentari
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1) L’ABOLIZIONE DELLA POSSIBILITÀ DI CUMULO
MASSIMA SPESA, MINIMA RESA?
di Vincenzo Galasso , Massimiliano Landi , Andrea Mattozzi e Antonio Merlo 27.05.2008
L'indennità dei parlamentari italiani è fino a quattro volte superiore al reddito annuale di un manager del settore privato. E i redditi totali dei deputati nel primo anno alla Camera aumentano in media del 77 per cento. A questo si somma il reddito di eventuali attività professionali esterne: in media un ulteriore 38 per cento dell'indennità. Ma le stime suggeriscono che 10mila euro di reddito guadagnato in attività al di fuori del Parlamento riducono il tasso di partecipazione del parlamentare dell'1 per cento. Nasce da qui la proposta di abolire la possibilità di cumulo.
Abolire il cumulo dell'indennità parlamentare percepita dai legislatori italiani con fonti di reddito provenienti da altre attività di lavoro autonomo, seguendo l'esempio della legislazione in vigore negli Stati Uniti. È la proposta che avanziamo in questo articolo e si basa sui risultati di alcuni articoli scientifici recentemente pubblicati, su uno studio sull'evoluzione dei redditi dei politici italiani nel secondo dopoguerra commissionato dalla Fondazione “Rodolfo De Benedetti” (1) e sul confronto del caso italiano con l'esperienza degli Stati Uniti.
LA LETTERATURA
In un articolo scientifico recentemente pubblicato, Andrea Mattozzi e Antonio Merlo dimostrano che un aumento dell'indennità riduce la qualità media degli individui che decidono di intraprendere una carriera politica, riduce il turnover nel settore (poiché aumenta il numero dei politici di professione) e ha un effetto ambiguo sulla qualità media dei politici di professione.(2) Nel modello teorico gli individui dotati di elevata abilità politica utilizzano il settore politico come una “vetrina” dove mostrare le proprie capacità e segnalare quindi un'abilità potenzialmente elevata anche nel settore privato. Un aumento dell'indennità rende la carriera politica un'opzione più attraente sia per gli individui più abili, che avrebbero comunque deciso di entrare in politica, sia per coloro che hanno un'abilità politica relativamente bassa. Ciò riduce la qualità del “politico marginale”, cioè di quell’individuo che è indifferente fra intraprendere o meno una carriera in Parlamento (effetto d'ingresso). Allo stesso tempo, però, politici relativamente migliori e già in attività scelgono di rimanere in politica poiché i salari offerti sono diventati più competitivi (effetto di permanenza).
Da un punto di vista empirico, Michael Keane e Antonio Merlo studiano come le scelte di carriera dei congressisti statunitensi rispondano agli incentivi monetari. (3) I loro risultati confermano l'esistenza dell'effetto di permanenza identificato da Mattozzi e Merlo e dimostrano che può essere di dimensioni non trascurabili. Ad esempio, una riduzione del 20 per cento dell'indennità percepita dai congressmen comporta una riduzione del 14 per cento della durata delle carriere congressuali. Tuttavia, l'effetto non è uniforme tra le varie tipologie di politici. Nella loro analisi, Keane e Merlo distinguono fra due caratteristiche latenti dei politici: la capacità di vincere le elezioni (skilled type) e l'ambizione politica o il desiderio di ottenere risultati legislativi significativi (achiever type). Lo studio dimostra che una riduzione dell'indennità riduce la durata della carriera congressuale degli skilled types molto più di quella degli achiever types. Poiché, fra le due caratteristiche latenti, essere un achiever probabilmente rappresenta meglio l'essenza della “qualità” politica, lo studio conclude che una riduzione dell'indennità congressuale non riduce significativamente la qualità politica.
REDDITO ADDIZIONALE E ATTIVITÀ PARLAMENTARE
Dai risultati di questa letteratura economica si evince che l'impennata delle indennità parlamentari in Italia può aver contribuito nel corso del tempo al declino della qualità degli eletti al Parlamento attraverso l'effetto di ingresso che abbiamo descritto. Una drastica riduzione dell'indennità, però, potrebbe essere a questo punto controproducente a causa dell'effetto di permanenza. D'altra parte, sembrano ormai superate le circostanze storiche che hanno giustificato il fatto che i parlamentari italiani, al contrario dei congressisti americani, potessero integrare l'indennità parlamentare con fonti di reddito provenienti da altre attività di lavoro autonomo.
Il tasso di crescita del reddito lordo dei parlamentari italiani dal 1948 al 2006 è stato del 9,9 per cento, contro l’1,5 per cento dei congressmen. Inoltre, se negli Stati Uniti il reddito reale lordoè rimasto costante dal 1980, in Italia è cresciuto a un tasso medio del 3,9 per cento e dal 1994 ha superato il reddito reale lordo dei “colleghi” statunitensi. Oggi l'indennità dei parlamentari italiani è fino a quattro volte superiore al reddito annuale di un manager italiano del settore privato e il reddito addizionale è pari in media al 38 per cento dell'indennità parlamentare. Ancora, i redditi totali dei deputati nel primo anno di attività in Parlamento aumentano in media del 77 per cento rispetto a quelli dell'anno precedente e il settore politico in Italia sembra configurarsi come un absorbing state. La gran parte dei deputati che prima dell'elezione non svolgevano un'attività in questo ambito, dopo l'uscita dal Parlamento vi rimangono: dal 28,1 per cento dei politici provenienti dal settore legale al 61,2 per cento degli operai e impiegati del settore industriale; al contrario, negli Stati Uniti il 59,8 per cento dei politici continua la carriera nel settore privato.
Al di là del potenziale conflitto di interessi, che può sorgere quando i rappresentanti eletti intraprendono attività che producono un reddito al di fuori della loro attività pubblica, c'è un'altra ragione importante che rende auspicabile limitare le attività extra parlamentari: i legislatori “part-time” si impegnano meno dei colleghi “full-time” nel loro ruolo di rappresentanti dei cittadini. I nostri dati ci permettono di quantificare in che misura l'impegno del parlamentare in attività esterne influisca sulla sua partecipazione alle attività del Parlamento e, più precisamente, in che misura il reddito che si aggiunge all'indennità parlamentare riduca il tasso di partecipazione alle votazioni parlamentari. Le stime che otteniamo suggeriscono che 10mila euro di reddito guadagnato in attività al di fuori del Parlamento riducono il tasso di partecipazione del parlamentare dell'1 per cento.
Siamo pertanto convinti che il divieto di cumulo dell'indennità parlamentare con altre forme di reddito ottenute al di fuori all'attività parlamentare possa contribuire ad aumentare la qualità media dei politici, fornendo allo stesso tempo incentivi più efficaci per incrementare l'impegno legislativo. Infine, riteniamo che l'indennità parlamentare debba essere indicizzata al tasso di crescita dell'economia italiana piuttosto che lasciare ai politici stessi la scelta del proprio livello di retribuzione.
NOTE
(1) Galasso, Vincenzo, M. Landi, A. Mattozzi, A. Merlo, 2008. “The Labor Market of Italian Politicians,” manoscritto presentato alla X Conferenza europea della Fondazione Rodolfo De Benedetti su “La Selezione della Classe Dirigente”, Gaeta, 24 maggio, 2008.
(2) Mattozzi, Andrea e Antonio Merlo, 2008.“Political Careers or Career Politicians?” Journal of Public Economics, 92-3, 597-608.
(3)Keane, Michael e Antonio Merlo, 2007. “Money, Political Ambition, and the Career Decisions of Politicians,” PIER Working Paper 07-016, Department of Economics, University of Pennsylvania.
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2) LA RIDUZIONE DEL NUMERO DI PARLAMENTARI
MENO PARLAMENTARI PER MENO CORRUZIONE
di Tito Boeri e Vincenzo Galasso 02.03.2010
Il fatto stesso che si debba varare una legge per vietare ai politici coinvolti in episodi di corruzione di presentarsi alle elezioni la dice lunga su come non funziona la selezione della classe politica in Italia. Per migliorarne la qualità servirebbe una maggiore competizione elettorale e una migliore legge elettorale. Ma anche cittadini più attenti e un'informazione più concentrata sui fatti e meno sui retroscena. Un cambiamento che richiede tempo. Tuttavia qualcosa si può fare subito: ridurre il numero di parlamentari e di amministratori a livello locale. E bisogna farlo finché è forte nell'opinione pubblica l'indignazione per i ripetuti episodi di corruzione. Altrimenti i politici troveranno sempre un modo per mantenere (se non aumentare) poltrone e spesa pubblica.
A tre settimane dal voto alle Regionali, con liste elettorali già depositate, anche se non sempre in modo regolare, il Governo vara una nota (sarà un disegno di legge) per impedire ai politici corrotti di candidarsi alle elezioni. Lo giudicheremo quando ci sarà un testo. Ma un dato è già oggi chiaro: questa legge è una confessione dei vizi di fondo della democrazia in Italia. Non ci dovrebbe esser certo bisogno di una legge per impedire ai corrotti di candidarsi. Dovrebbero pensarci i partiti a non metterli in lista e i cittadini a punire i politici corrotti. Perché questo in Italia oggi non avviene o avviene troppo poco? C’è troppa poca accountability, responsabilizzazione degli eletti di fronte agli elettori. Vediamo come si potrebbe rafforzarla. Ma prima bene occuparsi di certe anacronistiche nostalgie della Prima Repubblica.
DIFFERENZE FRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA
Da non crederci. Molti commenti ai nuovi episodi di corruzione che coinvolgono la classe politica lasciano trasparire una struggente nostalgia per la Prima Repubblica. Dato che il nostro paese difetta di memoria storica, bene ricordare le cifre di quelle prime undici legislature della Repubblica italiana: circa un quarto dei parlamentari fu coinvolta in procedimenti giudiziari tali da comportare la concessione da parte dell’Aula dell’autorizzazione a procedere, con un impennata al 40 per cento nell’XI legislatura, sotto Tangentopoli. Il 2 per cento dei parlamentari sono finiti in prigione al termine del loro mandato.
Cosa c’è di diverso fra la Prima e la Seconda Repubblica? La disgregazione dei partiti. “Prima si rubava per i partiti, ora solo per se stessi”, nelle parole del presidente della Camera, Gianfranco Fini. In effetti, si è passati da partiti di massa che formavano e selezionavano le persone al loro interno, a partiti molti più snelli, meno interessati alla formazione, e più propensi a selezionare candidati provenienti da mondi diversi dalla politica. L’appartenenza alla classe politica è stata denigrata dagli stessi “nuovi” politici. Eppure il numero degli scranni in Parlamento – emblema della numerosità dei politici in Italia – non si è ridotto. È affiorata una nuova classe di politici-manager (il 40 per cento dei nuovi ingressi in Parlamento nell’ultima tornata elettorale appartiene a questa categoria) che coltivano i propri affari durante e dopo il loro mandato (oltre un terzo dei manager rimane in politica anche dopo il mandato). Non sempre legalmente, come dimostrano anche le vicende Fastweb e Telecom maturate proprio negli intrecci fra politica e business. Alla selezione dei partiti si è sostituita la selezione dei capipartito. In questo cambiamento non sono certo migliorati gli incentivi a scegliere candidature di qualità, anziché uomini (e donne) sotto il diretto controllo delle segreterie. La storia politica di altri paesi, come gli Stati Uniti, dimostra che i candidati di maggior qualità sono meno inclini a votare secondo logiche di partito e sono più attenti alle esigenze dei votanti del proprio distretto elettorale, come mostrano le recenti leggi sui mutui e sull’estensione dei sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti.(1) Per questo i migliori candidati non sono graditi alle segreterie.
UN PROBLEMA DI ACCOUNTABILITY
Ma non è dall’assenza dei partiti che scaturisce la corruzione. È un problema di accountability ovvero di limitata responsabilità: non tanto penale, nei confronti della legge, ma politica, verso gli elettori. Non è certo un caso che gli episodi più gravi (entrata di fatto della ‘ndrangheta in Parlamento) siano legati al voto delle circoscrizioni estere, dove ancora minore è la political accountability degli eletti poiché i distretti elettorali sono molto estesi, gli elettori poco informati e forse anche poco interessati a una politica che non li toccherà da vicino. Solo una maggiore competizione elettorale e una preferenza degli elettori per candidati di qualità può migliorare i processi di selezione.
Il grado di competizione elettorale dipende in larga misura dell’offerta politica. La mancanza di un’alternativa credibile consente al partito al potere di detenere un monopolio politico e la competizione si sposta all’interno del partito, lontano dalle urne. È ciò che avviene oggi in Cina, che avveniva in Italia nei 46 anni di governo democristiano e che continua ad avvenire in molti paesi quando uno dei due (o più) schieramenti di maggioranza perde forza elettorale. Ma anche la struttura bicamerale del sistema parlamentare e l’enorme numero di posti a disposizione (vedi tabella a fondo pagina) – gli scranni in Parlamento – contribuisce a ridurre il livello di competizione elettorale e consente ai capipartito di destinare alle Camere un buon numero di fedelissimi.
I sistemi elettorali contano nel favorire la political accountability dei politici. Ora come allora, negli anni Ottanta e Novanta, il Parlamento è eletto con un sistema proporzionale. Il maggioritario uninominale consentirebbe invece di aumentare la responsabilità politica nei confronti degli elettori del proprio distretto, a cui i politici dovranno tornare se vogliono un altro mandato. E può anche migliorare gli incentivi per la selezione dei candidati. Ad esempio, se nel proporzionale, il controllo di un pacchetto di voti (e di preferenze) poteva essere sufficiente a far ri-eleggere un politico indagato, nel maggioritario ciò risulterebbe più difficile, soprattutto nei distretti con maggior competizione elettorale. Un recente studio mostra infatti che durante il periodo del sistema maggioritario misto, il cosiddetto Mattarellum, nelle circoscrizioni uninominali più competitive, dove l’esito elettorale era maggiormente incerto, hanno prevalso candidati di maggior qualità – ovvero più istruiti e con maggiori esperienze amministrative.
A differenza che nella Prima Repubblica oggi abbiamo liste chiuse, che aumentano il potere di selezione delle segreterie dei partiti, e riducono la responsabilità diretta dei politici nei confronti degli elettori. Ciò che è più grave è che oggi agli elettori non è consentito punire i politici che si sono comportati peggio, magari macchiandosi di reati di corruzione, neanche ex-post, ovvero alle successive elezioni. La sorte dei singoli politici è, infatti, strettamente legata a quella del partito: la accountability non è più individuale, ma di tutto il partito. Facile per i singoli politici provare a giustificare colpe ed errori con scelte di partito. E per i partiti, facile mimetizzare politici di dubbia provenienza in lunghe liste elettorali, lontano dai riflettori che si accenderebbero su di loro in distretti uninominali – solo per scaricare i casi estremi dipingendoli come poche mele marce.
SUBITO MENO PARLAMENTARI
Per tutti questi motivi, tornare indietro, sempre che ciò sia possibile, passando dalla selezione dei capipartito alla selezione dei partiti non serve. Ci vorrebbero una maggiore competizione elettorale e una migliore legge elettorale. Ci vorrebbero anche cittadini più attenti. In alcuni distretti infatti, gli elettori non sembrano sensibili alla qualità dei politici, ma ad altri fattori, quali l’ideologia o il clientelismo. È ciò che emerge da uno studio che mostra come negli anni precedenti al 1994 – e dunque con un sistema proporzionale – nelle circoscrizioni con livello di capitale sociale più basso, i politici per i quali era stata chiesta l’autorizzazione a procedere non siano stati “puniti” alle urne dai loro elettori. Per avere cittadini più attenti e consapevoli è necessario che gli elettori siano in grado di valutare l’operato dei politici. Questo è possibile solo migliorando il monitoraggio e l’informazione sui politici. Anziché focalizzarsi sulle voci raccolte nel “Transatlantico” sarebbe più utile per gli elettori che i mezzi di informazione valutassero la rispondenza delle azioni dei politici ai loro programmi elettorali, che riportassero il livello di assenteismo dei parlamentari e le loro decisioni di voto in Parlamento, evidenziando, ad esempio, se hanno votato lungo le linee di partito almeno sulle leggi più significative. Cosa ha fatto il politico eletto nella circoscrizione dovrebbe essere una rubrica fissa in ogni giornale locale.
Ma è difficile pensare che a breve si possa rafforzare la competizione elettorale, cambiare sistema di voto, consapevolezza dei cittadini e sistema di informazione. Bene muoversi in questa direzione, ma ci vorrà del tempo. Oggi per rafforzare la selezione, migliorare il monitoraggio dei politici e aumentare in parte anche la competizione elettorale, si può imporre un numero chiuso più stringente. Bisogna ridurre il numero di parlamentari e il numero di amministratori a livello locale. Come si vede dalla tabella qui sotto oggi in Italia ci sono molti più parlamentari per abitante rispetto ad altre democrazie anche più consolidate della nostra (un parlamentare ogni 63.315 contro una media di un parlamentare ogni 240.242 abitanti). Per metterci in linea con gli altri paesi (ad esclusione dell’India) dovremmo almeno dimezzare il numero dei parlamentari.
Bisogna farlo ora, subito, finché è forte fra i cittadini l’indignazione per i ripetuti episodi di corruzione. Altrimenti i politici troveranno sempre un modo per tornare sui loro passi. Come avvenuto con la ventilata riduzione degli amministratori nella Finanziaria 2010.
Paese n. parlamentari popolazione residente rapporto pop./parl.
Italia 952 60.275.846 63.315
Francia 923 62.342.668 67.544
India 795 1.198.003.272 1.506.922
Giappone 727 127.156.225 174.905
Germania 682 82.166.671 120.479
Gran Bret.* 646 62.032.247 96.025
Spagna 614 44.903.659 73.133
Brasile 594 193.733.795 326.151
Stati Uniti 535 314.658.780 588.147
Canada 413 33.573.467 81.292
Portogallo 230 10.707.130 46.553
Australia 226 21.288.754 94.198
Olanda 225 16.592.232 73.743
Belgio 221 10.646.804 48.176
Media 240.042
* Non è stata considerata la House of Lords.
Fonte: Onu, siti ufficiali per nazione.
NOTA: (1) Per maggiori informazioni si veda: "The Political Economy of the U.S. Mortgage Default Crisis" di Atif Mian, Amir Su…, and Francesco Trebbi; maggio 2009.