LA CASERMA NON E' UNA FABBRICA, MA DAVANTI AI SUOI MURI NON PUO' FERMARSI IL DIRITTO - di Antonella Manotti

giovedì 20 gennaio 2011

Abbiamo sentito ripetere in questi giorni, nel contesto del dibattito sull’accordo sottoposto a referendum tra gli operai di  FIAT Mirafiori, che la fabbrica “non è una caserma”. Lo ha affermato il segretario generale della CGIL Susanna Camusso. Qualche tempo fa era stato il presidente Fini, in piena bagarre interna al PDL, a sostenere che il partito “non è una caserma”…

 

Questo mi ha fatto riflettere su come sia  ancora radicata nella società  e nella politica, l’idea della “caserma” intesa non come luogo di lavoro, seppur specifico, bensì come un contesto in cui la disciplina e l’ordine sono le uniche  basi su cui si fonda la quotidiana funzione del militare.

 

Ebbene, sappiamo che la Confederazione guidata dalla Camusso è impegnata da anni sul fronte dei diritti costituzionali da riconoscere ai cittadini militari, mentre il Presidente Fini più volte ha sottolineato  l’impegno dei militari nella difesa della democrazia dentro e fuori i confini nazionali. Quindi anche in loro persiste quell’idea: la caserma come “limite invalicabile” che racchiude un mondo separato dalla società .

 

Eppure in quelle caserme c’è chi,  in questi giorni, forse ha pensato che sarebbe stato bello avere la possibilità  di potersi esprimere con un referendum, sulle proprie condizioni professionali e  sulla necessità  di avere forme di rappresentanza più adeguate.

 

Il riferimento  potrebbe apparire esagerato, perchà© in ballo non vi sono certamente  investimenti o il rischio di perdere il lavoro, ma è legittimo o no domandarsi se  una società  democratica che nella crisi è segnata ancor di più dalle divisioni sociali possa accettare che esistano “sacche di separatezza” in cui una funzione o uno status professionale   significa violazione dei diritti e della dignità  della persona?

 

Vale a questo punto ricordare che c’è un PRINCIPIO: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro nè l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”.

 

Ebbene, questo  principio contenuto nell’ articolo 52 della nostra Costituzione, non poteva essere più esplicito nella volontà  di affermare che la difesa della Patria e della Costituzione medesima, è parte integrante di un sistema di valori a cui ogni cittadino deve ispirarsi, non solo chi è preposto, per funzione, ad assolvere questo dovere.

 

LA SOCIETA’ e la POLITICA devono porsi,  allora, una questione fondamentale: coloro che sono chiamati per compito istituzionale a difendere  il paese e le istituzioni democratiche, possono esercitare, al pari di tutti i cittadini, i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione oppure il dovere di “obbedienza” racchiude in sà© una sorta di autoesclusone da tali diritti?

 

A lungo, è stata avallata l’idea che, la limitazione di taluni diritti fosse necessaria  per non compromettere l’imparzialità  delle Forze Armate, la loro coesione, l’efficienza basata sulla disciplina ecc.,  consolidando nel tempo, anche nella società  civile e tra le forze politiche, l’idea che – diritti come  DIGNITà, UGUAGLIANZA E LIBERTà – fossero in qualche modo fattori pericolosi per la “tenuta” di tali istituzioni.

 

Mentre si è del tutto “cloroformizzata” la tesi  contraria, ovvero che, privando gli operatori del Comparto dei loro più elementari diritti, di fatto si accentua la loro separazione  dalla società  di cui fanno parte e dove svolgono  compiti molto delicati che richiederebbero, invece, una maggiore consapevolezza  democratica.

 

Oggi si assiste ad una patologica accelerazione di fenomeni repressivi all’interno del mondo militare, che dovrebbero allarmare ogni cittadino che ha a cuore la democrazia di questo Paese. Si è scelto, in altre parole,  di smantellare i diritti invece  di seguire una politica di attuazione della Costituzione.

 

Il percorso fin qui seguito deve invertirsi, affinchà© i militari non siano isolati dalla società  democratica, ma pratichino la democrazia che proteggono, contribuendo alla sua vitalità .

Forze armate sempre più separate e marginali, possono diventare funzionali a progetti di  una società  più conflittuale.

 

Abbiamo davanti a noi lo scenario di una Italia divisa in cui la crisi potrà  accentuare l’emersione di tensioni di tipo sociale, economico, ecologico, etnico e dove, senza politiche sociali  e senza tutela dei diritti, si possono determinare modi di vivere diversi e inconciliabili e ingiustizie che possono scivolare nella accettazione della illegalità  come male minore, nella violenza, nel razzismo e nell’intolleranza.

 

In quest'ottica non è un caso la normalizzazione dell'utilizzo di militari nelle più svariate emergenze, anche di ordine pubblico, proposti mediaticamente come una panacea per i mali dell'Italia.

 

Occorre rimettere al centro il “LAVORO MILITARE” che miopi classi dirigenti, si sono illuse di poter ignorare o peggio di poter cancellare nella sua dignità  e nella sua funzione sociale, derubricandolo dall’agenda politica del Paese.

 

I cittadini militari – dal canto loro - debbono  far sentire la loro voce, perchà© c’è un limite alla delega passiva e alla compressione dei diritti sociali rigettando la solitudine del calcolo politico che  li vuole ridurre  a numero o, peggio, a compiacenti esecutori dei desideri dei partiti e potenti di turno.

 

Esiste un nucleo fondamentale di diritti che  appartengono all’individuo e  che va assunto come punto fondamentale per tutti. La caserma non è una fabbrica, ma davanti ai suoi muri, non può fermarsi il DIRITTO.

 

ANTONELLA MANOTTI

Direttore de “Il Nuovo Giornale del Militari”

 

 

 

 


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