LA TASSAZIONE DELLE RENDITE E L'IMPOSTA DI SUCCESSIONE: PRIMI PASSO VERSO UNA RIFORMA FISCALE SERIA E DURATURA (Scritto di Cleto Iafrate in memoria di Tommaso Padoa-Schioppa)

domenica 30 gennaio 2011


LA TASSAZIONE DELLE RENDITE E L’IMPOSTA DI SUCCESSIONE
Primi passi verso una riforma fiscale seria e duratura.
Scritto in memoria di Tommaso Padoa-Schioppa.

SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Rapporto tra evasione fiscale e debito pubblico – 3. Soluzione proposta dall’autore – 4. Conclusioni



1. INTRODUZIONE

Tommaso Padoa-Schioppa si è spento all’improvviso all’età  di 70 anni, a seguito di un arresto cardiaco.
Era molto stimato anche da coloro che non condividevano le sue idee, forse per i suoi modi gentili, la sua intelligenza e la sua elegante ironia. Durante la sua vita ha ricoperto numerosissimi incarichi di prestigio, tra cui quello di Ministro tecnico durante il governo Prodi, in quella occasione si conquistò una certa impopolarità  per il rigore con cui interpretò il suo mandato. I più lo ricordano per essere stato il primo Ministro della Repubblica ad aver usato il termine “bamboccioni” ed espressioni del tipo “le tasse sono bellissime”. A tal proposito, è significativa una vignetta di Forattini, in cui l’ex ministro dell’Economia appare stretto da una camicia di forza e portato via da due infermieri mentre urla «LE TASSE SONO BELLISSIME, METTETEMI GIU’, BAMBOCCIONI!».
Personalmente ho apprezzato l’economista perchè ha sempre parlato in modo chiaro e schietto, senza mai usare giochi di parole, soprattutto, riferendosi alla crisi finanziaria; non ha esitato perfino a citare i dieci comandamenti per esprimere quanto fosse inscindibile il legame esistente tra la democrazia rappresentativa e l’imposizione fiscale. A tal proposito, Padoa-Schioppa ha affermato: «A chi dice che mettiamo le mani nelle tasche dei cittadini rispondo che sono gli evasori ad aver messo le mani nelle tasche dello Stato e di altri cittadini onesti, violando così non solo il settimo comandamento, ma anche un principio base della convivenza civile».

2. RAPPORTO TRA EVASIONE FISCALE E DEBITO PUBBLICO

Chi intende confutare la tesi secondo cui l’evasione fiscale vada assimilata ad un furto, afferma che commette il reato di “furto” solo chi si appropria, in modo illecito, di beni altrui, ed aggiunge che, poichà© la proprietà  deriva direttamente dalla produzione, ciascuno è il legittimo "proprietario" di ciò che crea e produce.
Secondo i sostenitori di questa tesi, le tasse non versate allo Stato non possono essere considerate un "furto", poichà© si tratta di denaro che, in assenza del cosiddetto "ladro" (cioè l'evasore), non sarebbe mai stato prodotto e, di conseguenza, il fisco non avrebbe mai potuto vantare diritti su di esso.
Tali teorici sostengono, inoltre, che non è l'evasore a sottrarre denaro dell'Erario, ma è piuttosto lo Stato che, tassando il reddito, preleva denaro di proprietà  dei cittadini.
Le voci contrarie eccepiscono che, in assenza dell’evasore, lo Stato non sarebbe neppure gravato dagli oneri derivanti dall'utilizzo da parte sua dei servizi pubblici per produrre l’imponibile, per cui quella percentuale di ricchezza (imposta) prodotta ed occultata, corrisponde al costo dei servizi utilizzati; di conseguenza, è da ritenersi comunque dovuta alla collettività  e la sua non corresponsione, evidentemente, è assimilabile ad un furto.
Personalmente ritengo che, sotto il profilo tecnico-giuridico, il ragionamento che tende a non considerare l’evasione un furto non sarebbe del tutto sbagliato, se nel lungo periodo, l’evasione non incidesse sul reddito degli altri cittadini che evasori non sono.
Però, poichà© l’evasione provoca una riduzione del reddito nelle tasche degli onesti contribuenti, L’EVASORE E’, CERTAMENTE, UN LADRO e L’EVASIONE E’ UN REATO. Tale reato si compone di due fasi: una fase iniziale, nella quale il soggetto agente pone in essere la condotta omissiva e/o commissiva ed una fase successiva, che possiamo definire “di mantenimento”, nella quale perdurano gli effetti di quella condotta e, con il decorrere del tempo, si accrescono e si consolidano. Stando così le cose, dovrebbe acquistare rilevanza giuridica non solo la fase iniziale, in cui si realizza la condotta ma, anche e soprattutto, quella successiva di mantenimento.
Faccio un esempio.
Ipotizziamo che, nei primi anni ’90, un evasore abbia omesso di versare un’imposta dovuta di un milione di euro, che ha utilizzato per acquistare titoli di Stato italiani (per esempio, BTP trentennali); ebbene, l’ipotetico evasore ha conseguito un ingente capital gain a seguito di questa sua operazione di investimento.
Pur volendo essere d’accordo sul fatto che l’evasore non ha “rubato” il milione di euro - poichà©, in sua assenza quel denaro non sarebbe mai stato prodotto - è di tutta evidenza che l’evasore ha rubato certamente il capital gain, corrispostogli dagli altri cittadini non evasori (sotto forma di maggiori imposte richieste dallo Stato per far fronte alle sue scadenze ovvero di minori servizi offerti).
Il verificarsi, nell’ultimo trentennio, innumerevoli volte di situazioni simili a quella testà© solo ipotizzata, unitamente a vari altri fattori tra cui i condoni, ha contribuito a provocare l’attuale situazione in cui versa l’Italia, dove il 50% della ricchezza è finita nelle mani del 10% delle persone. Inoltre si stima che l’evasione abbia raggiunto un livello pari al 18% del PIL e, per alcune categorie, il tasso di evasione è pari all'80% del reddito totale prodotto (fonte Istat ed Ufficio Studi Agenzia delle Entrate). Altre fonti meno accreditate ritengono addirittura che questi dati siano sottodimensionati ed eccessivamente ottimistici.
L’evasione è strettamente correlata al debito pubblico.
Per debito pubblico si intende il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui privati, imprese o banche, che hanno sottoscritto titoli (quali, in Italia, BTP, BOT e CCT) che sono destinati a coprire il fabbisogno finanziario statale ovvero l'eventuale deficit pubblico.
La stabilità  e credibilità  di un Paese dipende anche dall’ammontare del suo debito pubblico. Il rapporto tra il debito pubblico ed il Prodotto interno lordo costituisce un importante indicatore della solidità  finanziaria ed economica di uno Stato. L’Europa, infatti, giudica gli Stati membri soprattutto in base a questo indice.
Se dividessimo l’attuale debito pubblico dell’Italia per il numero dei suoi abitanti, risulterebbe che ognuno di noi, anche i bambini, ha un debito di circa 30 mila euro nei confronti dello Stato; si tratta di un fardello gigantesco che si traduce in sempre maggiori interessi che ogni anno il nostro Stato deve pagare ai suoi creditori, e per farlo deve sottrarre altrettante risorse alle politiche sociali. Quindi, in ultima battuta, a pagare il debito pubblico sono i contribuenti che pagano le tasse.
Alla luce di ciò, ritengo che in Italia la percezione dei rischi connessi all'aumento esponenziale del debito pubblico sia del tutto insufficiente rispetto alla reale dimensione del problema. Nel prossimo futuro, altri Paesi dell’area euro, tra cui l’Italia, corrono seri rischi di finire come la Grecia, mentre quelli più virtuosi rischiano di venir travolti da un vorticoso effetto domino.
E’ giunto il momento di pensare ad una seria riforma fiscale, non ci possiamo più permettere interventi estemporanei, efficaci solo a fini propagandistici. Pensare che gli incentivi per i consumi ed i bonus per la rottamazione di automobili, elettrodomestici e cucine possano risolvere il problema, equivale a credere di poter guarire un moribondo solo con un’aspirina. Nà© si possono far passare per riforme fiscali delle “furbate” attraverso le quali si cambiano solo i “connotati” alle imposte: negli ultimi anni siamo passati dal superbollo auto al raddoppio del costo del carburante diesel, dall'IRPEF all'IRE, dall'IRPEG all'IRES e dall’ICI stiamo passando all’IMU (imposta municipale unica). Parimenti efficace ai soli fini propagandistici è il cosiddetto “spesometro”, a cui sta lavorando in questo momento l’Amministrazione Finanziaria. E’ stato definito “una finestra aperta su tutti i consumi significativi”, in realtà  è una riproposizione allargata dello scontrino parlante, al momento usato solo in farmacia. Lo “spesometro” consiste in una comunicazione unica che imprese e intermediari dovranno inviare al fisco contenente i dati dei contribuenti che hanno effettuato acquisti di beni o servizi per importi superiori a 3.500,00 euro. La comunicazione servirà  per verificare se le spese sono in linea con i redditi e i beni dichiarati al fisco dal contribuente che le ha sostenute. A mio avviso un tale strumento di accertamento, che non prevede alcun conflitto di interessi tra chi effettua l’acquisto e chi dovrebbe inviare la comunicazione (venditore), non può garantire l’Amministrazione finanziaria (interessata a ricevere la comunicazione) da complici intese tra i due. Inoltre lo “spesometro” avrà  le seguenti due conseguenze:
- un aumento dei prezzi dei beni, a causa della maggiore incidenza su di essi degli oneri bancari a seguito del frazionamento dei pagamenti (al fine di non superare la soglia fissata dallo “speso metro”);
- un ulteriore aumento della mole di lavoro delle Commissioni Tributarie, che finiranno per collassare, visti l’arretrato giacente e l’attuale carenza di organico.
Ritengo, infatti, che la comunicazione unica su cui si baserà  lo strumento di accertamento potrà  essere utilizzata esclusivamente a fini statistici; nel caso in cui venisse utilizzata a sostegno di una qualsiasi presunzione, essa non supererà  la verifica giurisprudenziale, in quanto poco sostenibile e foriera di dubbi e perplessità  di diversa natura.

La verità  è che le tasse sono necessarie per arginare un debito pubblico che ormai è fuori controllo, ed ogni anno bisogna costruire un argine sempre più alto affinchà© la piena non travolga tutti. Se non si pone un freno alla corsa inarrestabile del debito pubblico, le tasse non potranno che aumentare. Quando esse non aumentano, il cittadino deve essere ancora più preoccupato, in quanto al mancato aumento corrisponderà  certamente una diminuzione di servizi essenziali, quali: l’istruzione (oggi si parla di “classi pollaio”, composte da un numero di studenti superiori alle 30 unità ); la sanità  (in alcune regioni bisogna attendere oltre un anno per effettuare un esame diagnostico, e qualcuno ogni tanto muore in attesa di una diagnosi); la sicurezza (si consideri che a tutto il comparto è stata congelata una quota di stipendio - gli assegni funzionali maturati dal primo gennaio - si tratta di diritti acquisiti e su cui molti avevano già  fatto affidamento nelle loro decisioni di spese future).

3. SOLUZIONE PROPOSTA DALL’AUTORE

Si consideri un gregge di pecore, alcune legate ed altre libere nel pascolo, ed un pastore che, avendo bisogno di una quantità  di lana sempre maggiore, ogni anno tosa prima quelle legate, poi quelle che gli si consegnano spontaneamente ed infine tutte quelle libere che riesce a prendere. La tosatura prosegue fino al giorno in cui tutte le pecore legate e quelle che si sono sempre consegnate autonomamente, sono rimaste pelle ed ossa; le altre, invece, non riescono più a muoversi a causa del peso della lana che si portano addosso. Bisogna decidere se scorticare vive quelle legate e quelle che sono alla portata del pastore, oppure provare a prendere quelle che sono sempre sfuggite alla tosatura. Ebbene, il pastore è l’Amministrazione finanziaria, le pecore legate sono i lavoratori dipendenti ed i pensionati, quelle che si sono consegnate liberamente al pastore sono tutti i lavoratori autonomi onesti e quelle sfuggite sempre alla tosatura sono gli evasori. Quel giorno sta per arrivare!
Parimenti il futuro dell’Italia dipende dalle scelte di politica fiscale che si fanno nel presente e dal rigore con cui verranno attuate.
A dirla con Tommaso Padoa-Schioppa: “Il passato è uno, il futuro è molteplice. Il futuro non giace sulle ginocchia di Giove, nà© sta scritto in alcun luogo. Siamo noi a scriverlo con le nostre azioni e le nostre scelte, trasformando il molteplice in uno. Ecco perchà© il presente è la linea della nostra libertà ”.
E’ giunto il tempo di fare delle riforme VERE, SERIE e, soprattutto, CORAGGIOSE.
E’ necessario partire dalle motivazioni per cui l’evasore occulta il suo reddito; esse, a mio avviso, sono principalmente due: il risparmio e l’investimento.
Tralascio la quota di evasione destinata ad essere reinvestita in quanto il frutto di qualsiasi investimento, prima o poi, si trasformerà  in una rendita di cui godere oppure in un patrimonio da trasferire in eredità ; inoltre essa non genera, nel breve termine, recessione per l’economia, nà© stagnazione per il mercato, semmai inciderà  sul prezzo di equilibrio dei beni e servizi;

Pertanto, concentro la mia attenzione sulla quota di evasione destinata al risparmio, che è come una metastasi per l’economia.
Ritengo che si riuscirà  a debellare l’evasione solo creando un interesse, in chi produce il reddito, a dichiararlo; cioè un interesse che sia in conflitto con le ragioni che lo inducono all’evasione.
In base a quest’ultima considerazione, la prima imposta che andrebbe modificata è quella che regola la tassazione delle rendite; in seguito l’imposta di successione e donazione con cui ogni contribuente, anche l’evasore, prima o poi, dovrà  fare i conti. Il criterio a cui ispirare la riforma è molto semplice: è necessario passare dall’attuale sistema di aliquote proporzionali ad un sistema di ALIQUOTE PERSONALI. In altre parole, OGNI SINGOLO CONTRIBUENTE DOVREBBE AVERE LA SUA PERSONALE ALIQUOTA CON LA QUALE VERREBBERO TASSATE LE SUE RENDITE. DETTA ALIQUOTA DOVREBBE DIPENDERE DALLA MEDIA DEI REDDITI IMPONIBILI DICHIARATI DAL CONTRIBUENTE SIN DALLA SUA PRIMA DICHIARAZIONE, OVVERO IN UN ARCO DI TEMPO MEDIO LUNGO.
Qualche decennio or sono tale proposta poteva sembrare di fantapolitica fiscale. Oggi ciò è realizzabile, in quanto le dichiarazioni sono tutte disponibili in Anagrafe Tributaria.
Si potrebbero, per esempio, aggiungere 4 cifre numeriche in coda al codice fiscale di ciascun contribuente, le quali esprimerebbero la media dei redditi imponibili dichiarati dal contribuente nell’ultimo arco temporale preso in esame.
Il codice attualmente utilizzato composto da 16 cifre alfanumeriche non può definirsi “fiscale”, poichà© contiene esclusivamente dati anagrafici. Solo un codice come su descritto, che andrebbe aggiornato ogni anno, potrà  chiamarsi anche “fiscale”.
I dipendenti delle Agenzie Fiscali e della Guardia di Finanza, che sono circa 130.000, impiegherebbero meno di una settimana per integrare il codice “fiscale” di ciascuno dei circa 60 milioni di cittadini residenti in Italia. Questo sì che potrebbe essere un ottimo terreno di confronto su cui giocarsi il premio di produttività !.
La media dei redditi, espressa dalle cifre aggiunte in coda ad ogni codice fiscale, consentirebbe il calcolo dell’aliquota personale attraverso una semplice funzione (del tipo Y = aX + b). In cui “Y” è l’aliquota personale da calcolare, “X” la media dei redditi (che, come detto, dipende dalla storia reddituale di ciascuno), “a” è un “coefficiente di congruità ”, precedentemente stabilito con legge ed espresso sotto forma di scaglioni. Il coefficiente esprimerebbe la propensione al risparmio per ciascuna fascia di reddito. Infine, il fattore “b” dovrebbe ricomprendere tutte le detrazioni d’imposta (in esso troveranno posto le precedenti donazioni, le vincite al lotto, i condoni, ed anche i casi diagnosticati di “avarizia clinica”, da cui alcuni potrebbero essere affetti). Il fattore “b”, strada facendo, verrà  meglio definito dalle elaborazioni giurisprudenziali, ciò che conta è il principio. In particolare, l’incognita (aliquota personale) con cui tassare ciascuna rendita sarà  inversamente proporzionale alla media del reddito dichiarato e dipenderà  dalla congruità  di ciascuna rendita a tale media. Inoltre, si potrebbe prevedere che i redditi risalenti ai periodi di imposta remoti abbiano un peso inferiore sulla determinazione della media e, nel caso non fossero presenti in Anagrafe Tributaria, potrebbero essere autocertificati dal contribuente.
ECCO COSI’ CREATO L’INTERESSE A DICHIARARE IL REDDITO: maggiore sarà  il valore della media e minore sarà  l’aliquota, fino ad azzerarsi in caso di totale congruità . Di conseguenza, alcune rendite verrebbero tassate al 12,5% come oggi accade nei confronti di tutte le rendite (anche quelle che sono il frutto di ricchezze accantonate onestamente), altre non verrebbero tassate affatto (quelle congrue alla media dei redditi dichiarati) ed altre ancora verrebbero tassate con aliquote superiori al 12,5% (quelle incongrue, quindi, evidentemente, nelle mani degli evasori totali, salvo prova contraria a carico di chi le detiene).
Lo stesso discorso andrebbe fatto per l’imposta di successione e donazione. L’aliquota di questa imposta dovrebbe dipendere dalla congruità  dell’asse ereditario alla media del reddito prodotto e dichiarato in vita dal de cuius. In base a questo metodo, alcune eredità  non dovrebbero venire affatto tassate, altre dovrebbero essere tassate al 2% (come oggi accade per tutti i patrimoni, compresi quelli onestamente realizzati) ed altri patrimoni verrebbero tassati con aliquote superiori al 2% (quelli che risultano incongrui rispetto alla media dei redditi).
L’attuale aliquota pari al 12,5% è troppo alta nei confronti delle rendite provenienti dall’onesta ricchezza e troppo bassa nei confronti delle rendite frutto dell’evasione.
Ritengo l’aliquota proporzionale attualmente utilizzata per tassare le due imposte su citate, iniqua e fonte di sperequazioni. Infatti se si considerano due contribuenti con lo stesso reddito: il primo vive in affitto e destina una parte del suo reddito al risparmio per utilizzarne i frutti (rendita) per pagare parte dell’affitto; l’altro, invece, ha una casa di proprietà  e destina una parte del suo reddito per pagare il mutuo acceso per acquistarla. Ebbene, con il vigente sistema, dopo un certo numero di anni, la rendita del primo (affittuario) continua ad essere tassata al 12,5%, mentre la casa del secondo (proprietario) è esente da imposta.

Certamente dalla riforma appena prospettata si otterrebbe una valanga di extragettito, derivante dallo svuotamento di tantissime “caverne di Alì Babà ” in possesso agli evasori totali e dalla quota parte del patrimonio in possesso degli evasori parziali. Tale extragettito dovrebbe essere utilizzato ESCLUSIVAMENTE per ridurre il debito pubblico.
Solo dopo che il rapporto debito pubblico PIL avrà  assunto valori di sicurezza, si potrà  procedere a ridurre le aliquote fiscali IRE ed IRES, con benefici generalizzati per tutti i contribuenti.

4. CONCLUSIONI

Il lettore, a questo punto, potrebbe formulare la seguente obiezione: il contribuente che ha dedicato tutta la sua vita ad accumulare il denaro in modo onesto, privandosi anche del necessario pur di risparmiare, verrebbe, probabilmente, penalizzato da una simile riforma fiscale, in quanto le sue rendite in vita ovvero il suo asse ereditario post mortem verrebbero ritenute incongrue con la media del suo reddito dichiarato.
L’obiezione non è di poco conto, certamente all’indomani di una simile riforma tutti gli evasori si dichiarerebbero degli “avari-clinici”. Ritengo che molti mentirebbero per salvare il maltolto; in ogni caso, come direbbe Tommaso Padoa-Schioppa, il quarto vizio capitale non può essere considerato una virtù, pertanto, non può godere di alcuna tutela da parte dell’ordinamento.
La seconda opposizione, altrettanto degna del massimo rispetto, la suggerisce l'economista canadese Pierre Lemieux, il quale sostiene che “ciascun Governo prenderà  tutto quello che potrà , e spenderà  quello che il traffico permetterà . Se tutti gli evasori cominciassero a pagare le loro giuste tasse, semplicemente gli introiti e le spese del governo aumenterebbero della differenza”.
Se Pierre Lemieux non avesse ragione, oggi non ci troveremmo nella situazione in cui siamo. Tuttavia, ritengo, che, rafforzando la vigilanza della “democrazia rappresentativa”, che stava tanto a cuore a Tommaso Padoa-Schioppa, valga la pena correre il rischio.

CLETO IAFRATE
Componente Direttivo nazionale Ficiesse
c.iafrate@ficiesse.it
 

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