LA "CATASTROFE DEMOCRATICA" DEI TROPPI MILITARI SOCCOMBENTI NEI GIUDIZI AMMINISTRATIVI: HA QUALCHE PESO L'ANOMALIA ITALIANA DELLA ECCESSIVA CONTIGUITA' TRA GIUDICI E POTERE ESECUTIVO? - di Giorgio Carta

mercoledì 20 aprile 2011

Di seguito, il testo dell’intervento dell’avvocato Giorgio Carta al 103° presidium di Euromil del 15 aprile scorso, tratto da www.grnet.it. Il titolo è della redazione del sito.

 

 

INTERVENTO DELL’AVV. GIORGIO CARTA

AL 103° PRESIDIUM DI EUROMIL

 

Cari amiche ed amici dell’Euromil, desidero innanzitutto ringraziarvi per l’opportunità  che – ancora una volta - mi date di illustrare la condizione giuridica e sociale dei militari italiani. Purtroppo, diventano sempre più rare le occasioni per trattare questo argomento pubblicamente, soprattutto nel mio Paese.


Uno speciale ed affettuoso ringraziamento va all’amico Emmanuel Jacob, Presidente di Euromil, che, ancora una volta dimostra, con fatti concreti, di avere a cuore la condizione dei militari italiani. Molto più, credetemi, della maggior parte dei politici italiani. Vi porto altresì il saluto di Vincenzo Bonaccorso, il quale non oggi qui presente per via della recente nascita della figlia Cindy, e che è oggi sorprendentemente posto sotto processo penale militare per avere semplicemente chiesto, con una lettera al Comandante generale dei Carabinieri, più diritti per i propri colleghi.

Tanto premesso, circa un anno fa, a Bruxelles, vi avevo relazionato – seppure in via molto generale – sulla grave ed anacronistica situazione di malessere e di privazione dei diritti dei militari italiani, tra i quali vanno ricompresi gli appartenenti a due forze di polizia ad ordinamento militare, cioè l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza (quest’ultima, in verità , amministrata con modalità  notevolmente più democratiche e liberali dell’altra).


Nella scorsa occasione, per riassumere, avevo evidenziato che ai militari italiani è espressamente vietato costituire o aderire a sindacati; e che è sostanzialmente impedito loro di costituire ed aderire ad associazioni o circoli militari (essendo la relativa autorizzazione rimessa al Ministro della difesa, che però l’ha rilasciata – nonostante i numerosi richiedenti - solo ad una associazione, peraltro oggi oggetto di atti ispettivi).

Tale situazione, come ricorderete, aveva determinato la nascita, per la prima volta nella storia italiana, di formazioni politiche che, sfruttando proprio la circostanza (a mio parere, del tutto fortuita, cioè sfuggita al controllo dei solerti censori della democrazia) che in Italia mancasse un divieto espresso alla costituzione di partiti costituiti anche da militari, avevano in tal modo inteso per la prima volta creare organismi politici che contemplassero nel proprio programma politico anche la tutela e alla rivendicazione dei loro diritti.

Delle due formazioni politiche nate con questa finalità , ne rimane sostanzialmente in vita solo una (il Partito Sicurezza e Difesa – PSD), essendo l’altra rimasta praticamente senza iscritti.


Vi avevo, inoltre preannunciato, l’imminente entrata in vigore del Codice dell’Ordinamento Militare che, nelle dichiarazioni iniziali del parlamento italiano, avrebbe dovuto semplicemente riordinare e coordinare le vigenti disposizioni legislative regolanti la vita militare, risalenti alcune a cento anni prima e, comunque, all’epoca fascista. In altre parole, il nuovo testo normativo non avrebbe dovuto innovare nà©, soprattutto, avrebbe potuto restringere il già  limitato patrimonio giuridico dei cittadini in uniforme.

Purtroppo, però, allorchà© il 9 ottobre dello scorso anno, il nuovo Codice dell’ordinamento militare è entrato in vigore, i militari italiani hanno dovuto tristemente prendere atto che era stata silenziosamente introdotta una nuova (ed illegittima) restrizione dei loro diritti.

Per fare un esempio, è stata per la prima volta formalizzato il principio, sicuramente anacronistico ed ingiustificato nel contesto sociale odierno, per cui i trasferimenti di sede – avendo natura di ordini militari – ben possano essere privi di motivazione, non preceduti da alcun avviso di avvio del procedimento e sottratti ad ogni controllo, visto che i relativi atti (in primis la proposta, da cui è possibile evincere la ragione della movimentazione) sarebbero oggi sottratti all’accesso.

In altre parole, oggi un militare italiano può essere trasferito da una parte all’altra del territorio nazionale con un provvedimento privo di motivazione ed avente efficacia immediata, senza che l’interessato possa minimamente conoscere le ragioni della movimentazione e senza esserne neanche preavvertito.

Ho visto con i miei occhi un provvedimento di sole cinque righe con il quale un graduato dell’Arma dei carabinieri, sposato e con figli, veniva trasferito, dall’oggi al domani e senza l’indicazione dei motivi, dalla Calabria alla Liguria, cioè ad oltre 800 chilometri dalla famiglia.

Tutto ciò è illegittimo per la semplice ragione che il legislatore non aveva affatto consentito al Governo di innovare la disciplina vigente, ma semplicemente di raccoglierla in un testo unico e di semplificarne la consultazione.

La disciplina militare, invece, non solo è stata modificata, ma è stata purtroppo resa ulteriormente lesiva dei diritti dei militari, con la conseguenza che è stato ulteriormente aggravato lo stato di malessere che già  regna nelle caserme italiane.

Tutto ciò discende, a mio modo di vedere, da una distorta concezione della potestà  disciplinare che – in Italia - viene adoperata come strumento di pressione, nella errata considerazione che un militare sottomesso e senza diritti sia un militare più efficiente.

L’esperienza europea di cui voi tutti siete espressione, voi che ben potete organizzarvi in sindacato nei vostri paesi senza perciò finire in un carcere militare o subire sanzioni disciplinari, insegna che non siete certo meno efficienti dei militari italiani, anzi sospetto che sia esattamente il contrario.

La verità  è che i militari italiani, non potendo scioperare (rischierebbero la galera!), nà© riunirsi in sindacato, sono di fatto impossibilitati a far sentire la propria voce e, perciò, sono esposti ad ogni sopruso e ad ogni ulteriore limitazione dei diritti.

Non voglio certo sostenere che tutti i superiori militari siano inclini a trattare in maniera antidemocratica e disumana i propri sottoposti. Voglio solo dire che, nel caso in cui, un militare si imbatta in tale tipo di superiore, non ha purtroppo molte possibilità  di tutelarsi e di far cessare i torti.

La conseguenza è il forte malessere che stiamo denunciando e che, ritengo, è grandemente favorito dalla concorrente cronica disoccupazione che certo restringe le scelte personali di alternative occupazionali di molti giovani italiani che, difatti, una volta arruolati nel servizio permanente, fanno poi la fila per essere dichiarati non più idonei (dal punto di vista sanitario) al servizio incondizionato, al fine di transitare nei corrispondenti ruoli civili dell’Amministrazione è così smettere di essere considerati cittadini di serie B dallo Stato, dalla politica, dai media e – purtroppo – dai cittadini.

 

Anche i diritti politici dei militari, quelli che – come detto – ben ricomprendono il diritto di iscriversi ad un partito politico e di ricoprire una carica, sono stati oggetto di un non casuale rimaneggiamento che, ovviamente, è anch’esso andato a discapito dei militari italiani.

Infatti, all’indomani della nascita di partiti politici precipuamente dedicati a riscattare i diritti e le prerogative democratiche dei militari - in particolare il PSD, fortemente organizzato su tutto il territorio nazionale ed intransigente verso i soprusi – gli stati maggiori si sono attivati per cercare di reprimere anche tale ultima parvenza di democrazia assegnata ai militari italiani.

Soprattutto, il Governo ha ritenuto di introdurre – nel Codice Militare introdotto di recente - alcune surrettizie modifiche legislative finalizzate ad escludere l’esercizio dei diritti politici da parte dei cittadini in uniforme.

Tutto ciò è illegittimo per le ragioni sopra esposte, visto che, anche su tale argomento, il Governo non era stato autorizzato a modificare la normativa vigente, ma solo a strutturarla in un testo unico.

A questo punto, voi vi chiederete i militari italiani lesi nei propri diritti non si rivolgano allora in massa ai giudici per ottenere giustizia. Questo aspetto è uno dei più inquietanti del situazione descritta perchà©, purtroppo, gli abusi perpetrati a danno dei militari non sono mai, se non in casi rari, sanzionati dai giudici amministrativi.

Premetto che contro le sanzioni disciplinari irrogate agli appartenenti del Partito Sicurezza e Difesa, sono stati tempestivamente proposti ricorsi amministrativi e giurisdizionali che sono tuttora pendenti e, quindi, in attesa di decisione.

Purtroppo, però, la fiducia dei militari nella Giustizia amministrativa à© ormai comprensibilmente giunta ad un livello tale da potersi parlare di una vera e propria catastrofe democratica. Infatti, si può affermare che spesso gli abusi ai danni dei militari italiani proseguono anche allorchà© questi decidano di invocare la Giustizia amministrativa.
Non lo diciamo solo noi – avvocati del settore o militari - che quotidianamente ci sorprendiamo per certe ingiustificabili pronunce giurisdizionali, ma lo dice lo stesso Ministero della difesa, il quale, nel 2009, addirittura non ha esitato a chiedere al Parlamento di introdurre limitazioni anche allo stesso diritto dei militari di rivolgersi ai Giudici per tutelare i propri diritti.

Nella seduta tenutasi davanti alla quarta Commissione Difesa del Senato della Repubblica il 4 novembre 2009, nell’ambito dell’«indagine conoscitiva sulla condizione del personale delle forze armate e delle forze di polizia ad ordinamento militare», infatti, si diede luogo all’audizione del direttore generale della Direzione generale per il personale militare, generale di corpo d’armata Mario Roggio.


Questi, sulla base di dati a sua disposizione, riferì alla commissione parlamentare che solo il 5 per cento dei ricorsi dei militari viene accolto e, sulla base di questo dato, non esitò a ritenere «necessario qualche intervento legislativo volto a contenere o a non estendere procedure di tutela valevoli nel pubblico impiego per tutti i cittadini anche al comparto militare».


Il dato statistico offerto dal Generale Roggio è, a dir poco, sconcertante perchà© attesta che ben il 95 percento dei ricorsi proposti dai militari viene respinto.


Se si pensa che, nel 5 per cento di quelli accolti, rientrano anche i banali giudizi sull’accesso ai documenti amministrativi e sui ritardi dell’Amministrazione, il quadro descritto risulta tragico e scandaloso, a meno di non pensare che davvero le scale gerarchiche militari siano così precise e, soprattutto, eque e democratiche da “sbagliare” solo nel 5 per cento dei casi, cioè una volta ogni venti!

La spiegazione di tale increscioso fenomeno è, a mio modo di vedere, molto chiara e discende dall’antidemocratica regola per cui i militari – in Italia - non sono sottoposti alla giurisdizione del giudice ordinario (quello cioè dei cittadini di serie A), ma a quella del Giudice (speciale) amministrativo.


Più precisamente, in base all’attuale assetto normativo nazionale - che muove dalla legge delega 23.10.1992 n. 421 e dal D. Leg.vo. 3.02.1993 n. 29, ma ha trovato compiuta regolamentazione con la legge di delega 15.03.1997 n. 59 e con il D.Leg.vo 31.03.1998 n. 80 - le controversie concernenti il rapporto di impiego di militari e forze di polizia sono attratte nella giurisdizione esclusiva della Magistratura amministrativa, la quale costituisce un’organizzazione autonoma (incardinata nella Presidenza del Consiglio dei Ministri) e distinta rispetto a quella del giudice cosiddetto “ordinario” (incardinato nel Ministero della Giustizia).


Il giudizio amministrativo rientra nella generale categoria del processo giurisdizionale di parte, caratterizzata dalla presenza indefettibile in qualità  di parte di una Pubblica Amministrazione. E, in effetti, anche per il processo amministrativo risultano senza dubbio valide le regole direttamente evincibili dall’art. 111 Cost. così come modificato dalla l. cost. n. 2/1999.


In base a tale disposizione, vige in Italia il principio del giusto processo per il quale ogni procedura giurisdizionale deve garantire in modo pieno ed effettivo la tutela delle posizioni soggettive che l’ordinamento riconosce ai consociati, consentendo che il processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità , davanti ad un giudice terzo ed imparziale e per una durata ragionevole.


Nel sistema giudiziario italiano, alla Giustizia amministrativa è demandata la soluzione di controversie caratterizzate per lo più dalla contrapposizione tra un soggetto debole, il cittadino, ed un soggetto forte, la Pubblica Amministrazione.


Pertanto, ci si aspetterebbe che i Giudici che l’amministrano assicurassero, se non una propensione a riequilibrare a favore del cittadino il predetto disuguale rapporto, quanto meno una indipendenza ed una imparzialità  rafforzate ed oggettive nonchà© scevre da qualsiasi sospetto di contaminazione e/o contiguità  con ciò che è espressione diretta o indiretta del potere pubblico, la parte “forte” del giudizio.

Accade, invece, puntualmente il contrario.

Ciò, in quanto i Giudici Amministrativi italiani – a differenza di quelli “ordinari” - raramente svolgono solo ed esclusivamente la funzione giurisdizionale loro assegnata. Essi intrattengono, assai più spesso, rapporti professionali retribuiti con la Pubblica Amministrazione di cui dovrebbero essere, invece, i distaccati controllori.


àˆ, infatti, sufficiente consultare il sito web ufficiale della Giustizia Amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it) per avvedersi della gravità  e della diffusione del fenomeno degli incarichi stragiudiziali assegnati ai magistrati dei Tribunali Amministrativi Regionali e del Consiglio di Stato.

Non solo, sempre i Giudici amministrativi, più volte nell’ambito della loro carriera, sono posti in aspettativa e divengono addirittura organici all’Amministrazione con ruoli di altissima responsabilità , se non addirittura impiegati quali membri o Presidenti delle Autorità  cd. indipendenti o “garanti”, per poi rientrare nei ruoli di provenienza e dispensare nuovamente giustizia nei Tribunali amministrativi, in cui si controverte della legittimità  dell’azione amministrativa posta in essere dalle medesime Amministrazioni e/o Autorità  presso le quali hanno prestato servizio.

Oltretutto, occorre specificare che il Consiglio di Stato ha una doppia natura, amministrativa e giurisdizionale. Quale organo amministrativo, il Consiglio di Stato è il supremo organo di consulenza giuridico-amministrativa del Presidente della Repubblica, mentre, come organo di giurisdizione amministrativa, è preposto alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione.


Il Presidente del Consiglio di Stato è nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. Tale circostanza costituisce una sicura anomalia, visto che il Presidente del massimo organo della Giustizia amministrativa è proposto dal Capo del Governo, che è l’organo di vertice dell’Amministrazione.


In altre parole, l’Amministrazione indica da sà© il proprio Giudice, con ogni comprensibile conseguenza sull’auspicata indipendenza ed autonomia della funzione giudicante.
Non solo, i posti che si rendono vacanti nella qualifica di Consigliere di Stato sono conferiti, ai sensi dell'art. 19 della legge 27 aprile 1982, n. 186, in ragione di un quarto, a personalità  nominate con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere del consiglio di presidenza.


La loro scelta, quindi, è anch’essa espressione di una scelta fatta dalla stessa Amministrazione che essi dovranno giudicare nelle controversie con il cittadino.
In tali condizioni, è quantomeno discutibile considerare tali Giudici “terzi ed imparziali” nei confronti di quella Pubblica Amministrazione che li nomina e li beneficia di incarichi assai ben retribuiti.

In effetti, per ovviare a tale scempio e calpestio dei più elementari principi di convivenza civile, basterebbe applicare una norma che già  esiste: l’art. 51, primo comma, numero 3), del codice di procedura civile (applicabile anche al processo amministrativo per effetto dell’art. 17 del codice del processo amministrativo) che, come è noto, impone al Giudice di astenersi dal decidere su un giudizio se ha «rapporti di credito o debito con una delle parti».
E, invece, ciò non accade e la Giustizia amministrativa italiana continua ad essere dispensata da chi, appunto, intrattiene «rapporti di credito o debito» - seppure autorizzati - con l’Amministrazione, complessivamente intesa.

In tale situazione, pertanto, è impensabile che la giurisprudenza possa farsi portatrice di innovazioni positive e democratiche per i militari italiani.


Negli altri campi del diritto, i Giudici creano nuovi ambiti di tutela dei cittadini, nei confronti dei militari, invece, li restringono.


In conclusione di questa breve rassegna, l’impressione che si trae è che, senza una reale volontà  politica ed istituzionale di cambiare la situazione descritta, i militari italiani continueranno ad essere considerati cittadini di serie B, a cui disconoscere ogni diritto e per i quali, anzi, abbiamo illustri esponenti dei vertici militari che non esitano a chiedere una ulteriore riduzione dei loro diritti.

Grazie ancora, amici dell’Euromil, per l’attenzione prestata e per tutto quanto vorrete fare per aiutare – dall’alto della vostra organizzazione sopranazionale - i vostri colleghi militari italiani.

 

Stoccolma, 15 aprile 2010


GIORGIO CARTA

 

  


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