MILAN (SOLE24ORE) SU “CAUSE-FARSA” DELLA GIUSTIZIA MILITARE. I GIUDICI: PAGATO PER FARE POCO O NULLA (ROBERTI-PADOVA); DUE UDIENZE IN QUATTRO MESI (SCARFI-TORINO); LE CAUSE CE LE ANDIAMO A CERCARE COL LANTERNINO (DINI-PADOVA)

venerdì 31 agosto 2007


MILAN (SOLE24ORE) SU “CAUSE-FARSA” DELLA GIUSTIZIA MILITARE. I GIUDICI: PAGATO PER FARE POCO O NULLA (ROBERTI-PADOVA); DUE UDIENZE IN QUATTRO MESI (SCARFI-TORINO); LE CAUSE CE LE ANDIAMO A CERCARE COL LANTERNINO (DINI-PADOVA)

 

Di seguito, l’articolo a firma Alessandro Milano de Il Sole 24 Ore.

 

Da http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2007/08/giustizia-militare-cause-farsa.shtml?uuid=a113b3e2-56c6-11dc-99e9-00000e25108c&DocRulesView=Libero

 

 

CAUSE-FARSA PER LA GIUSTIZIA MILITARE

 

di Alessandro Milan

30 AGOSTO 2007

 

Come pedine del domino che cascano, uno dopo l'altro si alzano i veli che coprono lo scandalo della giustizia militare, un settore dove il personale abbonda (così come le strutture) ma le cause scarseggiano. Dopo l'autodenuncia del giudice a latere di Padova Benedetto Manlio Roberti («vengo pagato per fare poco o nulla») altri due magistrati escono allo scoperto. Sono il sostituto procuratore di Torino Paolo Scarfi e il sostituto procuratore di Padova Sergio Dini, che è anche membro del Consiglio della magistratura militare, l'organo di autogoverno.


«La fotografia che ha fatto il giudice Roberti - dice Scarfi - è perfino generosa. Un esempio? A Torino le ultime due giornate di udienza sono state il 12 marzo e il 4 luglio». Tra le due date, tutti più o meno a girarsi i pollici. Aule vuote ma stipendio garantito. Eppure una norma dell'ordinamento giudiziario prevede il decadimento dell'ufficio (il licenziamento, insomma) se un magistrato non presta lavoro per più di 15 giorni senza motivazioni.

 

Già, ma chi va a controllare nel mondo di Utopia della magistratura militare? «A Torino i processi pendenti sono attualmente 20 - prosegue Scarfi -. Un lavoro che si può sbrigare in tre o quattro mezze giornate. Ed è più o meno così in tutti i tribunali d'Italia, tranne a Roma dove i dibattimenti aperti saranno un centinaio». Davvero numeri miseri, che letti da un qualsiasi magistrato dell'ordinaria gridano vendetta.


Tra l'altro, come già denunciato dal giudice Roberti, i reati che vengono trattati sono di poco conto. Ma qualche esempio può rendere l'idea: a Torino è in corso il procedimento tra due carabinieri che, allo stadio e in servizio d'ordine durante una partita di calcio, hanno iniziato a insultarsi per poi finire alle mani. E dire che erano lì per sedare eventuali risse tra tifosi. C'è poi il caso di due ufficiali dell'Aeronautica: uno ha scritto con lo spray sul muro dell'abitazione di servizio dell'altro frasi offensive nei confronti della moglie. Peraltro i processi per ingiurie in seguito a presunti o veri tradimenti non si contano.


Ma un caso su tutti merita la citazione: a Torino un militare ha sottratto dal bancone del bar una brioche e un commilitone «con mossa altrettanto repentina ne ha mangiata una parte». Risultato: sotto processo entrambi, il primo per furto e il secondo per ricettazione «perché traeva profitto dal furto precedente». Questioni che non approderebbero mai in un tribunale ordinario: «Ma nella giustizia militare lavoriamo talmente poco che si finisce per trattare almeno queste cause - ammette Sergio Dini -. Si può dire che le andiamo a cercare col lanternino per fare qualcosa. È un modo per giustificare, in parte, lo stipendio».

 

Al tribunale di Roma va meglio, i procedimenti sono più numerosi perché la procura capitolina ha la competenza anche sui reati compiuti dai militari di stanza all'estero. Ma anche in questo caso i motivi per cui finiscono sotto procedimento disciplinare alcuni nostri soldati non meriterebbero forse molta attenzione. Che dire per esempio di due nostri soldati finiti davanti alla corte per avere scritto sulla garitta che «la caporalessa Tal dei Tali è una gran p…?» Reato contestato: diffamazione, per di più pluriaggravata perché compiuta in un teatro di operazioni. Che per la cronaca era l'Iraq, dove probabilmente c'era qualcosa di più urgente a cui pensare.


Si resta stupiti anche ad esaminare alcune situazioni legate al personale. Il presidente del tribunale di Torino, Roberto Bellelli, risiede a Roma in base a una deroga del Consiglio della Magistratura militare. Un viaggio non proprio breve da casa all'ufficio. Sempre meglio del suo predecessore, che probabilmente detiene il record italiano di distanza tra la residenza e il posto di lavoro. Stanislao Saeli, presidente nel capoluogo piemontese fino al 2002, era stato autorizzato a risiedere a Palermo. Evidentemente un tragitto scomodo, tanto che poi Saeli ha optato per fare il giudice a latere in Sicilia, rinunciando al ruolo più prestigioso di presidente.


Ma non è finita: tra i casi più eclatanti si registra anche un «magistrato-imprenditore». È Sandro Benigni, giudice a latere a Verona con residenza a Milano, che tiene anche corsi di preparazione all'esame per avvocati e magistrati ed emette regolare fattura essendo titolare di partita Iva. Una pratica trattata dal Consiglio della magistratura militare che ha incredibilmente deciso di soprassedere: «Non posso violare il segreto professionale e dichiarare come hanno votato i membri del Cnm - dice Dini -. Certo, qualcuno ha sollevato qualche perplessità, per usare un eufemismo».

 

Risultato: procedimento disciplinare archiviato lo scorso giugno e assoluzione con la motivazione che il giudice Benigni, lavorando da solo, senza collaboratori e senza una struttura fissa sostanzialmente non costituirebbe un'impresa. E così può continuare a insegnare, fatturando oltre 70mila euro l'anno.


La sensazione è che più si scava in questo mondo dorato (per chi ci lavora), più si scoprono anomalie. Per dirne altre: se un militare commette un reato nei confronti di un commilitone di un grado diverso viene giudicato dalla magistratura militare ma se il reato avviene tra due pari grado allora interviene la magistratura ordinaria.

 

C’è poi di peggio: un maresciallo rubò dall'armadietto della caserma le chiavi della macchina di un commilitone e poi l'autovettura, parcheggiata fuori. Risultato: il furto delle chiavi è un reato militare perché avvenuto in servizio, quello dell'auto è un furto che va davanti a un giudice ordinario. «È successo anche questo» ammette sconsolato il procuratore Sergio Dini che conclude amaro: «la politica ha lasciato che la situazione degenerasse e ora abbiamo un corpo dello Stato che è totalmente improduttivo».

 



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