INCONTRO COCER E MINISTRO MARTINO, IL DIRITTO DI AVERE RISPOSTE (di Antonella Manotti)

mercoledì 21 maggio 2003

Probabilmente non è stato detto e scritto tutto sulla scarsa considerazione in cui è tenuta la rappresentanza militare. E se qualcosa occorre aggiungere, non si può non partire dall’ultimo (e unico) incontro che il COCER ha avuto con il Ministro della Difesa Martino. Un incontro che ha ulteriormente dimostrato la debolezza dello strumento di tutela di cui dispone il personale militare e la scarsa disponibilità del vertice politico, a legittimarne un ruolo attivo in quella che dovrebbe costituire una normale prassi di “relazioni sociali”. Così, come assai scarse, sono state le argomentazioni con cui il Ministro ha accompagnato il confronto sulle questioni di fondo (insolute, disattese, ignorate….), poste dalla categoria.

Si è giunti all’incontro dopo mesi e mesi in cui il responsabile politico della Difesa, ha pressochè ignorato l’esistenza della rappresentanza, delegando di fatto agli Stati Maggiori, la funzione istituzionale di concertare, di confrontarsi, elaborare, formulare proposte e di impegnarsi su diversi fronti, con il COCER, attraverso i cosiddetti tavoli tecnici.

Un faticoso cammino che ha “congelato” l’attività della R.M. per mesi, per poi arrivare alla stretta finale, in cui è apparso evidente il limite del confronto-tecnico, la nebulosità delle soluzioni proposte e il giro di vite imposto dal governo, per la scarsa disponibilità di risorse finanziarie.

La questione delle carriere o quella dei parametri, sono solo gli aspetti più eclatanti che hanno fatto salire la temperatura a livelli preoccupanti. La massiccia astensione dalle mense, attuata in tanti enti e caserme, la dice lunga sulla grande delusione della base, rispetto ai provvedimenti proposti dai tecnici governativi e  tradotti, poi, in testi legislativi dal governo.

Il “problema” è diventato, quindi, “improvvisamente” politico ( o forse lo è sempre stato!) ed era – appunto – al vertice politico (il capo del governo e il Ministro della Difesa), che il Cocer si è rivolto per sciogliere i “nodi” scaturiti dalle forti resistenze messe in campo e  ostinatamente chiuse a qualsiasi proposta che migliorasse un  provvedimento - quello sui parametri – con conseguenze fortemente penalizzante per il personale.

Conseguenze, però, che saranno ancor più disastrose per una classe politica il cui comportamento appare inesorabilmente contraddittorio e impermeabile a qualunque confronto sulla esigenza di tutela e di miglioramento della condizione militare. Sono li a confermarlo due aspetti fondamentali. Il primo, collegato strettamente alla farraginosa risposta legislativa: deleghe in bianco che si traducono in “strumenti” talora blandi, talora discutibili, spesso inadeguati e ai quali si affida il raggiungimento di obiettivi che perdono per strada l’equità, la trasparenza e la coerenza, per assumere sovente la veste di provvedimenti “copertina”:

 Il secondo aspetto, collegato al ruolo che, nella formulazione e stesura di tanti provvedimenti, assume la R.M.  Quella impermeabilità a cui si faceva riferimento, la ritroviamo infatti, nella assenza di dialettica e di  confronto sulla delicata questione dello strumento di tutela con il quale i cittadini militari possono imbastire il dialogo con la parte politica. Non si può, ancora oggi,  sottovalutare in quali ambiti angusti la RM sia chiamata ad esercitare il proprio ruolo istituzionale e la cui funzione viene  bloccata – sovente - nelle   paludi dei tavoli tecnici e nel rapporto burocratico con gli SS.MM. Priva com’è,  di mezzi efficaci per far sentire il proprio “peso” contrattuale e spesso relegata al ruolo di comparsa con una mera funzione consultiva, o ignorata e messa davanti a prodotti già confezionati dagli uffici tecnici e legislativi della Difesa. Tutto ciò ha impedito alla RM, non da oggi ma sin dalla sua nascita, di far emergere e poter imporre una propria autonomia che desse forza a tutte quelle proposte in grado di modificare, correggere e limitare i danni provocati da tante riforme annacquate, in cui sono prevalse – il più delle volte -  logiche di bandiera, opportunismi, bisogni contingenti o esigenze di “cassa”, anziché la necessità di accrescere il benessere dell’uomo.

Riconoscere  i punti deboli dell’impianto rappresentativo al quale si affida il bisogno di tutela  individuale e collettiva del personale, significa comprendere che non è possibile accumulare ancora delusioni e sconfitte; vedere calpestati dignità e diritti. Perché, quella che oggi ci troviamo davanti, è una vera e propria battaglia del diritto. Diritto ad avere risposte e tutele.

Guai se il Diritto lasciasse il posto alla mistificazione. Si tratta, invece, di conquistare una nuova “opportunità”.

L’opportunità di scegliere e non di subìre regole imposte dall’alto; opportunità di saldare un rapporto con il personale, attraverso regole e sistemi di relazioni negoziali concrete e non fittizie, tantomeno gerarchizzate. Ma, soprattutto, occorre avere degli interlocutori disposti a dialogare sul serio.

L’esperienza fin qui accumulata, nelle varie concertazioni, nella definizione degli accordi, nei rapporti con l’Amministrazione, nelle interpretazioni unilaterali di norme contrattuali,  ci dice che è giunto il momento di cambiare le regole e che serve una “manutenzione” straordinaria per lo strumento rappresentativo nato dalla legge 382/78. Uno strumento che  va adeguato ai tempi, per superare i suoi limiti e le lacerazioni che si stanno determinando nel comparto dove,  non si può più parlare solo di difficoltà a rappresentare le istanze del personale, ma di vera e propria impossibilità ad aprire una “breccia”, nel monolite dell’indifferenza che sta fiaccando qualsiasi tentativo volto a  riconoscere pari dignità alla categoria e a contrastare l’ arretramento democratico sul piano dei diritti costituzionali. Indifferenza, approssimazione e mancanza di dialogo, che il Ministro della Difesa ha “suggellato” con il comportamento assunto in occasione dell’incontro “mordi e fuggi” avuto con il COCER.

Alla esigenza, manifestata in più occasioni dalla RM, di avere un interlocutore politico con cui dialogare, il governo ha scelto di non svolgere quel ruolo di mediazione e di negoziazione che poteva  far arrivare ad un punto diverso da quello da cui si era partiti. Il dialogo è stato, invece, unidirezionale. Così non si può parlare più di tutela, di rappresentatività, di relazioni sociali; c’è solo l’imposizione di una decisione, vige la legge del più forte.

E quando si scelgono queste strade,  occorre assumersene anche le responsabilità.

Oggi sono i parametri, le retribuzioni e un riordino mancato delle carriere, ma c’è anche il “quotidiano” nella prestazione militare; dal problema dei trasferimenti, dell’orario di lavoro, della casa, dei servizi, delle licenze, dei rapporti interdisciplinari, della giustizia, delle normative interne superate e spesso fonte di iniquità e sperequazioni, della professionalità mortificata……

Temi importanti che disegnano una “mappa” della condizione militare, in cui la tutela dei diritti individuali e la dignità professionale, hanno lasciato il posto alla precarietà e ad una impropria organizzazione nell’impiego,   ma anche ad una legislazione e a norme contrattuali che offrono ampi margini di discrezionalità nella disciplina dei rapporti professionali – “gestiti” dalla catena gerarchica.

Ebbene, se non si torna a ragionare concretamente, non più in astratto, sul concetto di TUTELA e sulla necessità di far camminare insieme, riforme, professionalità e modernizzazione dello strumento militare, facendo emergere l’esigenza di rinnovamento che sale dal mondo militare, il rischio è quello delle “deriva democratica”.

Le vie dell’equità, per il lavoro militare, debbono arrivare ben più lontano, per farci camminare sopra tutele e diritti, superando quelle disparità  e incertezze condannate, oggi, senza appello, dalla stragrande maggioranza del personale. Soltanto con una chiara risposta politica e la capacità di proporre un vero cambiamento, si possono ricreare le condizioni per un dialogo con la categoria e per far sì che il rispetto delle regole democratiche, torni ad avere cittadinanza anche nel settore militare.

Le lesioni del diritto vanno  rimarginate. Non c’è più spazio per la “politicuccia” del bastone e la carota. La professione militare e le sue regole, non possono rimanere fermi ad un altro secolo, soprattutto quando queste penalizzano, fortemente, centinaia e centinaia di uomini e donne che svolgono una funzione così delicata al servizio del Paese.

Perché il cittadino militare, ma anche la società civile, ne traggano vantaggio.

Alla politica va quindi il compito di dare “valore” alla condizione militare, per farla uscire - come dice qualcuno - dal “sottoscala”.

Il resto lo dovranno fare i militari partecipando, attivamente, con gli strumenti che la Costituzione offre loro, alla affermazione dei propri diritti.

 

ANTONELLA MANOTTI

Direttore de “Il Nuovo Giornale dei Militari”

http://web.tiscali.it/nuovogiornalemil/


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