VICENDA UNARMA: "GIUDICI E RAGION DI STATO" - di Giuseppe Fortuna

martedì 22 maggio 2001

Secondo l’opinione di gran lunga prevalente, ha carattere sindacale l’associazione che partecipa alla negoziazione di accordi collettivi o che organizza manifestazioni di dissenso e di protesta.

Sul punto, non è dato conoscere la vera opinione del Consiglio di Stato perché le decisioni che hanno concluso le due controversie tra l’associazione UNARMA e il Ministro della Difesa sono entrambe prive di una benché minima forma di motivazione. Fatto, questo, decisamente inusuale che certamente non è avvenuto per caso se si pensa che lo stesso Collegio sollevò con argomentazioni doviziose e di pregevole fattura la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8 della legge n. 382 (ordinanza n. 837 del 1998).

In quell’occasione, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 449 del 1999 decise per la legittimità della norma ma, come molti hanno osservato si trattò in larga misura di una decisione di opportunità condìta con numerosi richiami al legislatore affinché procedesse rapidamente alla riforma della rappresentanza militare.

Le decisioni del Consiglio di Stato sulla vicenda UNARMA vanno interpretate, secondo noi, nella medesima chiave di lettura. E’ di tutta evidenza che il Collegio, decidendo di eludere la questione di diritto, ha fatto una valutazione di tipo politico, evidentemente preoccupato degli effetti che una eventuale declaratoria di legittimità di UNARMA avrebbe potuto scatenare.

Il problema, quindi, non è la legittimità delle associazioni culturali, che nell’attuale configurazione normativa è assolutamente fuori discussione (sempreché l’associazione non pretenda di negoziare e non organizzi manifestazioni di protesta); il problema è l’evidente, conclamata inadeguatezza della normativa sulla rappresentanza che non riesce più né a interpretare il disagio interno alle forze armate, né a imbrigliare, come una volta, il proliferare delle iniziative di partecipazione.

Ma perché le associazioni preoccupano tanto i giudici?

Perché se nel loro ambito non prevale il senso del limite e della responsabilità, come in qualche caso è accaduto, si potrebbero avere, in carenza di normazione, sviluppi difficilmente governabili e potenzialmente destabilizzanti. Stiamo parlando, infatti, di operatori della difesa e della sicurezza e tutti ricordiamo l’allarme suscitato dal fantasioso documento fatto distribuire lo scorso anno, in alcune caserme, dal presidente in carica di un Cocer, come anche altre iniziative pubbliche di militari a passeggio nei pressi del Parlamento.

Non è certamente questo lo stile di Ficiesse la cui piena legittimità si ricava sia nella forma (basta leggere le norme statutarie e regolamentari) che nei comportamenti (a volte critici, ma mai conflittuali). E, infatti, la nostra associazione è stata riconosciuta conforme alla legge dalla stessa Autorità di governo nella risposta all’interpellanza parlamentare n. 2-02300 del 16 marzo 2000.

Da qualche tempo, a dir la verità, sembra che anche nei vertici militari si stia facendo largo la consapevolezza che la riforma si debba alfine compiere (si veda l’intervista a Repubblica dell’allora Capo di stato maggiore della Difesa, gen. Arpino). Ma a che tipo di riforma stanno pensando i vertici delle Forze armate?

Secondo alcuni, il disagio dei militari si risolverebbe agendo esclusivamente sul fronte retributivo allineando gli stipendi sui parametri di paesi europei quali la Gran Bretagna.

Tale opinione non è condivisibile. Certamente, c’è bisogno di retribuzioni dignitose, ma gli approcci che si limitino agli aspetti economici sono figli di una concezione che concepisce il soldato come una sorta di mercenario privo di idee e di valori che si acquieta riempiendogli la pancia e il borsello. Le soluzioni ispirate a tale posizione culturale non riescono a cogliere la vera natura del disagio ma specialmente, ciò che è più grave, avrebbero l’effetto di accentuare la condizione di separatezza delle forze armate dalla società civile che, in un momento di trasformazione dell’esercito di leva in esercito di professionisti, sarebbe il risultato più pernicioso che potremmo ottenere.

La strada da seguire deve essere, invece, quella della piena integrazione delle organizzazioni militari nel tessuto democratico, come avviene in molti paesi dell’Unione europea quali la Germania, l’Olanda, il Belgio, i Paesi scandinavi.

I cittadini con le stellette sono cittadini speciali, è vero, ma a loro si deve chiedere di sacrificare, in tempo di pace, “soltanto” i diritti incompatibili con la funzione di difesa, primo tra tutti quello di sciopero. Anche loro devono potersi riunire in associazioni professionali regolate dalla legge, devono poter esprimere idee e opinioni, devono poter eleggere i loro rappresentanti in modo democratico, senza le attuali interferenze della gerarchia, devono poter costruire strutture che diano supporto ai loro rappresentantiE se questi rappresentanti non interpretano il mandato ricevuto dalla base devono poterli, democraticamente, mandare a casa.

 

GIUSEPPE FORTUNA

 

 


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