LIBERTA' DI ASSOCIAZIONE SINDACALE PER I MILITARI. CON LA CONVENZIONE DI ROMA DEL 1950 GLI STATI CONTRAENTI (ITALIA INCLUSA) HANNO L'OBBLIGO DI RENDERE IL LORO ORDINAMENTO COMPATIBILE CON LA CONVENZIONE STESSA - Prof. Giuseppe Cataldi

lunedì 16 marzo 2015

Lo scorso 11 Marzo sono iniziate le audizioni informali dei docenti universitari presso la IV Commissione Difesa della Camera dei Deputati in materia di Riforma della Rappresentanza Militare, alla luce delle recenti sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Sono stati uditi il Prof. Giuseppe Cataldi, ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e il prof. Giovanni Gazzetta, ordinario di Diritto Pubblico presso l’Università “Tor Vergata” di Roma. Abbiamo chiesto agli illustri professori di poter pubblicare il loro resoconto e vi anticipiamo il documento del prof. Cataldi avente come tema il “Parere sull’incidenza, nell’ordinamento italiano, della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo con la quale la Francia è stata condannata per il divieto legislativo di costituire associazioni professionali militari a carattere sindacale (Matelly c. Francia, 2 ottobre 2014).”

  1. Mi viene richiesto di esprimere parere sull’incidenza, nell’ordinamento italiano, della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (V sez., 2 ottobre 2014 Matelly c. Francia, ricorso n. 10609/10), con la quale la Francia è stata condannata per violazione dell’art. 11 CEDU con riferimento al divieto, nell’ordinamento di quello Stato, di costituire associazioni professionali militari a carattere sindacale. 

L’art. 11, come è noto, prevede al primo comma il diritto alla libertà di associazione per ogni persona, “ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi”, mentre al secondo comma dispone le possibili restrizioni a tale diritto, da interpretare restrittivamente e da considerare tassative, come da giurisprudenza costante della Corte di Strasburgo. Nel caso di specie la Corte, dopo aver accertato che l’ingerenza pubblica nel diritto del ricorrente fosse ben prevista dalla legge, ha tuttavia affermato che tale ingerenza non era proporzionale e quindi “Non necessaria in una società democratica”. Ciò in quanto “se la libertà di associazione dei militari può essere oggetto di restrizioni legittime, il divieto puro e semplice di costituire un sindacato o di aderirvi porta, all’essenza stessa di tale libertà, un pregiudizio vietato dalla Convenzione” (punto 75 della decisione). La Corte ha infatti chiarito che le iniziative dello Stato francese a favore dei militari, con assunzione di responsabilità in merito alle preoccupazioni morali e materiali di tali suoi dipendenti “non potrebbe sostituirsi al riconoscimento a favore dei militari di una libertà di associazione, la quale comprende il diritto di costituire sindacati e di aderire ad essi”. Grava quindi sullo Stato francese l’obbligo di conformarsi a tale sentenza sia in ordine alla restitutio in integrum, sia in ordine alla necessità di non ripetizione di violazioni di tal genere, attraverso tutte le misure idonee, quali modifiche normative, di prassi giurisprudenziali e quant’altro. Quali effetti invece nell’ordinamento di uno Stato parte della Convenzione ma non convenuto nel caso di specie come l’Italia? Occorre distinguere: a) gli effetti in generale della giurisprudenza di Strasburgo per gli Stati Membri e b) nello specifico, in ordine al “test di conformità” della legislazione italiana in materia di rappresentanza “sindacale” militare con la CEDU.

 

  1. Sulla prima questione. Con l’adesione alla Convenzione di Roma del 1950 gli Stati contraenti hanno assunto l’obbligo di rendere il loro diritto interno compatibile con la Convenzione stessa. Tale obbligo si ricava direttamente dall’art. 1, a norma del quale “Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione”. L’Italia ha provveduto, com’è noto, ad inserire la Convenzione di Roma nell’ordinamento interno mediante un ordine di esecuzione emanato in forma di legge ordinaria (L. 4 agosto 1955 n. 848). In virtù della regola per cui il rango delle norme convenzionali, nella gerarchia delle fonti interne, dipende dal rango delle norme di adattamento, le norme della Convenzione hanno pertanto assunto valore di legge ordinaria. La “costituzionalizzazione” del principio del rispetto degli obblighi internazionali”, disposta dall’art. 117, comma 1, Cost., conduce anche a ritenere formalizzato il punto di arrivo della giurisprudenza della Corte di cassazione circa la “particolare forza di resistenza” da riconoscere alle norme convenzionali (e a quelle della CEDU in particolare) rispetto alla legislazione nazionale sopravvenuta. 

La Corte costituzionale ha espresso questo concetto in forma diversa e più complessa, qualificando come “norma interposta” (tra Costituzione e legge) la norma convenzionale (V. il par. 4.6 della sentenza n. 348/2007.). La sentenza n. 349/2007 esprime differentemente il concetto affermando che “con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati” e, con essi, al parametro costituzionale dell’art. 117. 

Ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione, gli Stati hanno l’obbligo di “conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”. Il paragrafo successivo attribuisce al Comitato dei Ministri, principale organo politico del Consiglio d’Europa, il compito specifico di sorvegliare l’esecuzione delle sentenze definitive della Corte. La sentenza definitiva della Corte ha effetto di “cosa giudicata” tra le parti: è incontestabile in giudizio e va eseguita. L’autorità di “cosa giudicata” posseduta dalle sentenze della Corte di Strasburgo è quella, tipica, della funzione giurisdizionale esercitata in un ordinamento giuridico, sia esso nazionale o internazionale. I giudici sono tenuti a riconoscere questo effetto senza ricorrere a procedure speciali, come ad esempio l’exequatur, poiché nel caso delle decisioni della Corte di Strasburgo ci troviamo, com’è ovvio, al di fuori del quadro tradizionale proprio degli atti giurisdizionali stranieri. Come la Corte ha però chiarito fin dalla già ricordata sentenza del 18 gennaio 1978, resa nella controversia Irlanda c. Regno Unito, le sentenze della Corte “fanno corpo” con le norme della Convenzione, e pertanto la loro interpretazione serve sì a decidere i casi di specie ma, più in generale, a precisare, salvaguardare e sviluppare le regole poste dalla Convenzione contribuendo in tal modo all’osservanza da parte degli Stati degli impegni da loro assunti in quanto Parti contraenti. Ciò significa che, secondo la Corte, le sue sentenze possiedono un effetto che va al di là della semplice “cosa giudicata”, come si evince dalle decisioni nelle quali la Corte ha stigmatizzato le violazioni compiute nonostante i precedenti specifici esistenti nella sua giurisprudenza non presi in considerazione dagli operatori del diritto interno dello Stato condannato. Nel caso Vermeire c. Belgio (sentenza del 29 novembre 1991), la Corte affermò ad esempio che i giudici belgi avrebbero dovuto attenersi alle conclusioni della precedente sentenza del 13 giugno 1979, Marckx c. Belgio, in cui lo Stato era stato condannato in una fattispecie del tutto analoga, senza necessità di attendere eventuali iniziative legislative rivolte a rendere il sistema conforme alle norme della cedu come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Tale principio vale anche, a dire della Corte, nei casi in cui i giudici interni  non abbiano tenuto conto della circostanza per cui leggi di altri Paesi di contenuto identico a quelle considerate, dal giudice interno, conformi alla CEDU erano state invece dalla Corte dichiarate contrarie alla Convenzione, come ad esempio nel caso deciso con la sentenza del 22 aprile 1993, Modinos c. Cipro, relativa al divieto legislativo degli atti omosessuali tra adulti consenzienti, divieto già dichiarato contrario alla CEDU dalla Corte con sentenza del 22 ottobre 1981, Dudgeon c. Regno Unito. In questi casi è evidente l’affidamento che la Corte europea fa alla conoscenza della sua giurisprudenza da parte dei giudici nazionali nonché alla possibilità, per essi, di applicare direttamente le norme della CEDU così come interpretate a Strasburgo nonostante l’esistenza di norme interne di segno contrario. Si parla, in questi casi, di valore di “cosa interpretata” della giurisprudenza della Corte. 

Il sistema è improntato alla valorizzazione del ruolo del giudice nazionale, giudice naturale della Convenzione. Pertanto, nell’ottica della Corte, oltre ad essere obbligati a conformarsi a quanto disposto nelle sentenze relative alle controversie nelle quali essi sono coinvolti in qualità di parte, gli Stati devono tener conto dell’incidenza nel proprio ordinamento nazionale della giurisprudenza della Corte complessivamente considerata. Ciò significa, in altri termini, che la Corte, conformemente del resto agli orientamenti che emergono dalle raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, auspica l’esistenza negli ordinamenti interni di procedure che consentano una «verifica permanente di conformità» alla Convenzione. È quanto dispone, com’è noto, lo Human Rights Act del Regno Unito con riferimento ai progetti di legge, per i quali è prevista un’attestazione preventiva di conformità alla Convenzione qualora contengano disposizioni suscettibili di incidere nella materia dei diritti umani. D’altra parte la riforma che introdurrà il Protocollo 16 alla Convenzione, una volta ratificato da tutti gli Stati Membri, va nello stesso senso di prevenire le violazioni alla Convenzione, dal momento che prevede il rinvio alla Corte di Strasburgo da parte dei giudici nazionali al fine di acquisire l’interpretazione autentica della Convenzione rispetto a casi dedotti nei giudizi interni (sulla falsariga di quanto avviene con la Corte di Lussemburgo nel sistema dell’Unione europea). 

Occorre poi aggiungere che le sentenze della Corte europea dei diritti umani, così come tutte le decisioni internazionali, si dirigono allo Stato Contraente nel suo complesso. L’art. 46 CEDU non può che indirizzarsi a tutti gli organi dello Stato, dal momento che il principio di separazione tra i poteri statali rileva esclusivamente per l’ordinamento interno. Nell’importante sentenza del 28 aprile 2010, n. 20514, la Corte di cassazione ha affermato che “alla doverosa osservanza degli obblighi che scaturiscono dai provvedimenti anche provvisori della Corte di Strasburgo, oltre al Governo, sono tenute tutte le istituzioni della Repubblica, compresi gli organi giurisdizionali nell’ambito della propria competenza”. 

Non solo, recentemente, in un’altra e altrettanto importante sentenza, quella del 7 maggio 2014 n. 18821, le sezioni unite penali della Corte di Cassazione, nell’estendere gli effetti discendenti da una pronuncia della Corte di Strasburgo ad una fattispecie identica a quella oggetto della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo ma che diversamente da quest’ultima non aveva formato oggetto di ricorso individuale ex articolo 34, hanno esplicitamente affermato che “di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già stigmatizzate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’articolo 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione, non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando […] il valore dell’intangibilità del giudicato”. 

In effetti, sempre secondo le sezioni unite penali, “il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona” e questo perché “[l]a preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti mortificato, per una carenza strutturale dell’ordinamento italiano rilevata dalla Corte EDU, un diritto fondamentale della persona…”. È per questo motivo che, “eventuali effetti ancora perduranti della violazione […] devono dunque essere rimossi […] anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice europeo […]”.Se così non fosse il valore costituzionalmente tutelato dell’intangibilità del giudicato si troverebbe a prevalere su valori, ugualmente salvaguardati a livello costituzionale, quali i diritti fondamentali dell’individuo ed il principio di parità di trattamento, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo. L’orientamento seguito dalla Corte europea in tema di applicazione dell’art. 46 della Convenzione non ha mancato pertanto di incidere sull’ordinamento italiano, dando luogo ad alcune variazioni normative e soprattutto ad una recente elaborazione giurisprudenziale che appare significativa in relazione alla fattispecie in esame. Modifiche normative generali sono state infine introdotte, con specifico riferimento all’efficacia nell’ordinamento italiano delle sentenze della Corte di Strasburgo, in base alla normativa recante “disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo” (Si veda la legge 9 gennaio 2006 n. 12. In materia di esecuzione delle disposizioni di tale legge, si veda il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° febbraio 2007). Si è infatti modificata la disciplina riguardante i rapporti di collaborazione fra Governo e Parlamento, disponendo che il Presidente del Consiglio per un verso dia comunicazione alle Camere delle singole decisioni della Corte europea e promuova gli adempimenti governativi conseguenti, per altro verso sia tenuto a presentare annualmente una relazione generale sullo stato d’esecuzione delle relative sentenze da parte dell’Italia. 

Ma risulta particolarmente rilevante e apprezzabile l’orientamento recente della giurisprudenza italiana. Un dato importante da cui partire è il riconoscimento attribuito alla giurisprudenza di Strasburgo dalla giurisprudenza costituzionale. Si evince, infatti, dalle affermazioni rese sul punto dalle più volte citate sentenze 348 e 349 del 2007, come la Corte ritenga che il testo della CEDU faccia ‘corpo’ con l’interpretazione che ne fornisce il suo giudice, a motivo della (così definita dalla Corte) peculiare rilevanza di questa convenzione (Afferma la Corte, nel par. 6.2 della sentenza 349/2007, che la peculiarità “consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima”. La sentenza n. 348/2007, al punto 4.6, precisa che, “poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, par. 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia”.). Il ruolo della Corte di Strasburgo di interprete della CEDU e dei Protocolli, aggiunge la Corte costituzionale, “garantisce l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri”. Il giudice interno è pertanto tenuto ad applicare la normativa interna conformemente alle disposizioni della CEDU come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Ne consegue l’obbligo per tutti i poteri dello Stato di tener presente la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche in relazione a casi non riguardanti direttamente l’Italia.

 

 

 

    

  1. Sulla seconda questione. La formulazione dell’art. 1475 del Codice dell’ordinamento militare, affermando senza possibilità di equivoci, al secondo comma, che “I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali” appare pienamente conforme all’analoga previsione del codice della Difesa francese dichiarato incompatibile con l’art. 11 CEDU dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Matelly c. Francia. E’ infatti il divieto assoluto ad essere stato censurato, pur concedendo la Corte la possibilità agli Stati di procedere, “per la specificità delle missioni che incombono alle forze armate”, ad un “adattamento dell’attività sindacale”. Le restrizioni eventuali “non devono tuttavia privare i militari ed i loro sindacati del diritto di associazione per la difesa dei loro interessi professionali e morali” (par. 56 – 58 e 71 della sentenza). Come si è avuto occasione di ricordare, la Corte ha precisato che le iniziative dello Stato francese a favore dei militari, con assunzione di responsabilità in merito alle preoccupazioni morali e materiali di tali suoi dipendenti, pur commendevoli, non possono considerarsi come attuazione dell’art. 11 e quindi sostituirsi validamente al diritto ivi garantito. Ne consegue che, ad avviso di chi scrive, anche gli art. 1476 e seguenti del codice dell’ordinamento militare italiano non hanno questa idoneità, non bastano cioè a ritenere soddisfatte, nella specie, le esigenze dell’art. 11 CEDU.  Ne deriva l’obbligo anche per lo Stato italiano di trarre dalla sentenza in esame tutte le conseguenze al fine di conformare l’ordinamento italiano alle esigenze della CEDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo, in tal modo conformandosi all’art. 1 della Convenzione stessa, nonché alla giurisprudenza costituzionale citata.

 

 

 

                     Napoli, 5 dicembre 2014


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