SUICIDI UOMINI E DONNE IN DIVISA: LA LUNGA STRAGE SILENZIOSA. (da ilfattoquotidiano.it)
La chiamano la “strage silenziosa”: perché invisibile agli occhi dello Stato, ma lacerante tra il personale in divisa italiano.
IL FENOMENO DEI SUICIDI DELLE DIVISE
Si tratta del fenomeno dei suicidi tra le forze armate e di polizia nel nostro Paese, che ha assunto negli anni caratteri inquietanti: dal 2014 al 2019 sono stati individuati dal Osservatorio nazionale suicidi nelle forze dell’ordine (Onsfo) dell’associazione Cerchio Blu un totale di 258 suicidi. Il numero più alto si è verificato nella Polizia di Stato (74 casi) e nei Carabinieri (74), seguono la Polizia Penitenziaria e la Polizia Locale (40 casi) e la Guardia di Finanza (30 casi).
L’anno con il numero più alto di suicidi, invece, è il 2019, con ben 58 in totale. Più di un caso a settimana, quando in rapporto sono invece 9,8 casi per 100.000 operatori delle forze dell’ordine, rispetto ai 5 casi di suicidio per 100.000 abitanti registrati nella popolazione generale italiana. Mentre fino a ottobre 2020, secondo l’Osservatorio suicidi in divisa (Osd), nato per raccogliere le testimonianze dirette di amici e famiglie dei deceduti, sono già più di quaranta i suicidi tra il personale militare e delle forze dell’ordine.
NON ESISTONO DATI CERTI
L’assenza di registri amministrativi, per questo genere di morti, in tutte le divisioni coinvolte rende il range di casi oscillante, determinando una differenza tra i valori reali e i dati raccolti. Soldati, poliziotti o carabinieri di cui si perdono tracce e storie, perché i vari corpi dello Stato non vogliono assumersi alcuna responsabilità. Uomini e donne che sotto la divisa nascondono la propria fragilità, per difendersi dalle pressioni di un ambiente coercitivo per natura. Dal quale molto spesso, tuttavia, rimangono schiacciati. Come nel caso dell’assistente capo della polizia in servizio presso la Questura di Ragusa che nell’aprile del 2019 ha ucciso la moglie e poi si è tolto la vita. Oppure il gesto estremo della militare donna dell’Esercito di appena 30 anni che si e uccisa con la propria pistola d’ordinanza nei bagni della stazione della metro di Roma lo scorso dicembre. E l’ispettore capo del carcere di Monza, una donna di 41 anni, madre di un bambino di dieci che, terminato il servizio, ha preso la pistola d’ordinanza e si è tolta la vita.
PERCHÈ NON SI PARLA DEI SUICIDI TRA LE DIVISE?
Ma perché non si parla dei suicidi tra le divise? E quali sono i veri problemi alla base di gesta simili? “Il problema principale è la situazione che si vive all’interno delle caserme. A partire dal fatto che gli psicologi militari sono a stretto con tatto con i comandi delle divisioni e quindi poco affidabili agli occhi di a-genti e soldati che temono di essere segnalati e poi sospesi dal servizio” spiega Rachele Magro, psicologa e psicoterapeuta, responsabile del servizio psicologico alle famiglie dei militari con l’associazione L’altra metà della Divisa.
Una delle ragioni, infatti, che induce un rappresentante delle forze dell’ordine a tacere in merito al suo stato di turbamento o depressione è l’articolo 48 del DPR n. 782 del 1985, che prevede il ritiro del tesserino e dell’arma nel caso in cui un poliziotto necessiti di aiuto psicologico. I poliziotti temono di vedersi affrancare l’etichetta di “pazzo”, per poi essere frettolosamente emarginati, e così rimangono in silenzio. Detto ciò, il 79 per cento delle volte l’agente si suicida con la pistola di ordinanza e lo fa sul luogo di lavoro (33 per cento).
Storia analoga per i soldati. Un medico militare di stanza all’Aeronautica Militare svela l’iter che subisce chi denuncia una qualche debolezza emotiva. “Esasperato dai comportamenti vessatori dei superiori mi sono rivolto al telefono verde 800 48 29 99 dell’Aeronautica, per denunciare le ritorsioni subite, lasciando i miei dati e senza nascondersi dietro l’anonimato” racconta il medico, che adesso preferisce non svelare la sua identità.
“Il risultato è stato che dopo quella telefonata, registrata, sono stato trasferito senza se e senza ma, proprio perché segnalato al mio comandante” continua l’uomo. Per chi non arriva al compiere il gesto estremo c’è quindi il trasferimento, per chi si toglie la vita invece fascicolo e indagini vengono chiuse il prima possibile. A pesare nel corso della carriera di soldati, carabinieri e agenti sono anche le “cosiddette note caratteristiche, ovvero una scheda valutativa con i giudizi dei superiori da cui dipende la possibilità o meno di fare carriera” racconta la moglie di un poliziotto morto suicida. “Questi rapporti vengono compilati a simpatia dei superiori e senza criteri precisi. Basta pensare che tra le qualità valutate c’è anche la lealtà: sulla base di quale aspetto si può misurare la lealtà di un uomo? Anche per questo mio marito è arrivato allo stremo” confessa la donna.
IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS
Le analisi e gli studi fatti dai vari Osservatori indicano che alla radice del suicidio ci sono varie concause, fra tutti “il disturbo post traumatico” causato da eventi particolarmente stressogeni, come può essere l’aver partecipato a un attentato durante una missione all’estero per quanto riguarda i militari, oppure la distanza dalla famiglia o dalla propria terra d’origine” continua la psicologa. Non a caso la macro area geografica dell’Italia che presenta il maggior numero di casi di suicidio è il Nord, seguito dal Centro. Ovvero le zone dove più spesso viene “trasferito il personale arruolatosi nel sud Italia, sia per la disponibilità di posti sia per volere dei generali” spiega Salvatore Vinciguerra, segretario nazionale Assodipro. “Per esperienza personale posso però assicurare che i motivi del disagio non sono riconducibili solo a problemi di tipo personali, ambientali o familiari. A suicidarsi sono infatti quasi esclusivamente il personale più in basso sulla scala gerarchica, quello più soggetto a vessazioni” dice Vinciguerra.
LE STATISTICHE
L’età delle vittime va dai 45 ai 55 anni, ma nel 37 per cento chi si toglie la vita sta tra i 25 e i 44 anni. L’85 per cento sono uomini, e l’8 per cento donne (anche per la minor presenza statistica nelle varie divisioni). Molti sono figli, altri sono padri e madri con famiglie. Vittime, anche quest’ultime, di un sistema refrattario, che “non conosce canali di assistenza psicologhe ai familiari se non nelle due settimane successive al suicidio. Poi il silenzio: che ti fa capire come si è sentito chi ha scelto quel gesto estremo” conclude la moglie del poliziotto suicidatosi.
fonte: ilfattoquotidiano.it - https://www.poliziapenitenziaria.it/la-lunga-strage-silenziosa-degli-uomini-e-donne-in-divisa/