INTERVENTO AL RADUNO DEGLI UFFICIALI TITOLATI "CORSO SUPERIORE DI POLIZIA TRIBUTARIA" TENUTO IN ROMA IL 30 GIUGNO 1992 - di Giuseppe Fortuna

mercoledì 27 giugno 2001

Signor generale Ispettore, signor generale Comandante della Scuola, signori Ufficiali.

 Vorrei fare qualche riflessione traendo lo spunto da uno dei più importanti temi che sono stati trattati quest’oggi, quello della lamentata mancanza di solidarietà  degli ufficiali titolati tra di loro e fra questi e gli ufficiali non titolati.

 Faccio parte del 19° Corso superiore, il corso che sta per essere licenziato dalla Scuola; un corso cavia – si è detto - perché per primi abbiamo sperimentato un nuovo piano di studi dove grande rilievo hanno avuto insegnamenti quali la scienza dell’organizzazione, il servizio di stato maggiore, la psicologia sociale.

 Nei due anni appena trascorsi si sono avvicendati sulla cattedra numerosi ufficiali del Corpo, titolati Scuola di guerra o titolati Scuola di polizia tributaria.

 Ebbene, quasi tutti i t.ST hanno evidenziato, magari con toni ed accenti diversi, questo problema della solidarietà, della coesione. Quasi tutti ci hanno detto: “Ragazzi, quando tornerete ai reparti, con il titolo, non sarà  più come prima. Sarete soli. I comandanti faranno continuamente capo a voi, mentre la maggior parte dei colleghi non vi daranno collaborazione o addirittura vi ostacoleranno”.

 I t.SG, invece, hanno prevalentemente lamentato la mancanza di cultura dell’organizzazione, difetto particolarmente grave negli ufficiali del Corpo incaricati d funzioni di stato maggiore, che sarebbe il principale responsabile della ormai frequente riformulazione di strategie di medio e lungo periodo da parte dei vertici che si avvicendano alla guida della Guardia di Finanza.

 Ora, a me sembra che i problemi evidenziati siano soltanto due aspetti di un’unica, grande tematica: quella della efficienza di una organizzazione; efficienza intesa nel senso della utilizzazione (la migliore possibile) delle risorse a disposizione e, in particolare, della risorsa più preziosa: la risorsa umana.

 Non v’è dubbio, infatti, che quando si parla di solidarietà  e di coesione o quando si parla di “cultura” si fa riferimento all’uomo e non certo alle infrastrutture o ai mezzi tecnici di cui l’organizzazione dispone.

 Ma soffermiamo la nostra attenzione sul problema sollevato dai t.ST (visto che questo è un convegno di t.ST) e proviamo a domandarci, magari chiedendo aiuto proprio alla scienza dell’organizzazione e alla psicologia sociale: quand’è che in un gruppo c’è “solidarietà ”, quando c’è “coesione”?

 Risposta: in un gruppo c’è coesione quando si verificano due condizioni. Primo: la certezza delle regole. Secondo: la trasparenza nella loro gestione.

 L’uomo inserito in una struttura organizzata collabora in modo partecipativo: se conosce le regole del gioco e se vede che tali regole trovano effettiva applicazione.

 In una situazione di tal genere, la maggior parte dei componenti di una organizzazione accetta che i “migliori” (individuati secondo tali regole) salgano la scala delle responsabilità, che facciano carriera, senza che con ciò diminuisca l’impegno dei “non eletti” al perseguimento degli obiettivi stabiliti.

 Ciò non toglie che ci sarà  sempre qualcuno che non possedendo nella misura necessaria le qualità  richieste dirà  che chi sale in vetta ha barato al gioco. Questo - è vero - fa parte della natura umana.

Ma gli altri membri dell’organizzazione, se le regole sono certe e se il meccanismo di selezione è trasparente, si accorgono della menzogna ed emarginano questo “qualcuno”, fino a costringerlo a rientrare nei ranghi o a uscire spontaneamente dal gruppo.

 Ma proviamo ad applicare quanto appena detto alla Guardia di Finanza e prendiamo in considerazione i due momenti fondamentali che scandiscono la vita e la carriera di noi ufficiali: l’assegnazione ad un nuovo reparto e la promozione al grado superiore.

 Ebbene, per quanto concerne l’assegnazione ai reparti non sono note le tipologie degli incarichi i i corrispondenti profili degli ufficiali che dovranno andarli a ricoprire.

Le determinazioni sono elaborate ogni anno, in segreto, al Comando generale. E con il Comando generale l’ufficiale può comunicare soltanto in modo formale, indicando in una carta periodica se e dove desidera essere trasferito oppure presentando istanza di revoca o di modifica del provvedimento, quando questo gli è già  stato notificato, o, infine, ricorrendo al giudice amministrativo.

 Per quanto riguarda le promozioni al grado superiore, sappiamo tutti che esse sono effettuate sulla base di criteri di valutazione che rimangono sconosciuti agli ufficiali valutati e che, per di più, variano ogni anno, a volte anche in modo radicale e dirompente, come è avvenuto nell’ultima valutazione al grado di maggiore.

 In queste condizioni pensare che chi fa carriera o chi raggiunge sedi ambite abbia “barato al gioco” non è soltanto facile ma - mi si consenta -  è lecito perché sta scritto nelle sentenze, sempre più numerose, emesse dai tribunali amministrativi regionali e confermate dal Consiglio di Stato.

 E non si dica che la colpa è dei TAR. Sarebbe come dire che la colpa della malattia è del medico che fa la diagnosi. Se si verificano violazioni delle regole del gioco, ben vengano i TAR a rimuoverle affinché sia data soddisfazione a chi ne è stato danneggiato.

 Ma allora, se le regole sono così incerte e aleatorie, some può esserci coesione, come può esserci solidarietà  tra gli ufficiali, titolati e non, della Guardia di Finanza?

 Cosa proporre allora?

Alcune indicazioni sono già  emerse nel corso di questa giornata. Io vorrei soltanto sottolineare l’urgenza, per il Corpo:

1) di stabilire regole certe e precise, conosciute da tutti gli ufficiali, in tema di trasferimenti e di promozioni;

2) che le variazioni delle regole siano sempre rese esplicite, unitamente alle motivazioni che ne hanno determinato il cambiamento;

3) che si cominci ad avere maggiore considerazione del profilo psicologico degli uomini, per rafforzare in loro il senso di appartenenza e per cominciare a ridurre quella sensazione di distacco, di lontananza, che l’ufficiale periferico avverte fortemente nei confronti del centro.

Solo così, a mio avviso, il Corpo passerà  dalla “cultura dell’obbedienza” alla “cultura della partecipazione e dell’efficienza”.

Signori, questo mio intervento non vuole essere, ovviamente, una sortita polemica nei confronti del Comando generale e dei colleghi del personale.

Sono stato tre anni al Comando generale. So che vi si lavora molto duramente. I colleghi del I Reparto li conosco tutti, li stimo e ho coscienza di quanto difficile e ingrato sia il loro lavoro.

Non sto criticando la forma militare della Guardia di Finanza perché, per quel che mi risulta, Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri - che sono militari - hanno definito da tempo, ai fini dell’avanzamento, i profili di carriera per gli incarichi riservati alla categoria ufficiali e adottano da tempo per la gestione dei trasferimenti, criteri assai diversi dai nostri, stabilendo, ad esempio, un contatto preventivo con l’ufficiale da trasferire, fornendogli una rosa di scelte alternative e dandogli precise garanzie se accetta sedi non ambite.

Con questo non voglio dire che Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri abbiano risolto d’incanto tutti i loro problemi. Ma certamente in quelle organizzazioni, più che nella nostra, si tenta di ricercare il consenso degli uomini che ne fanno parte.

Siamo in un momento storico di profonde trasformazioni. La società  civile sta chiamando il Corpo (e l’amministrazione finanziaria tutta) a un radicale cambiamento di ruolo e all’assunzione di nuovi tipi di responsabilità .

Attenzione: se non ricerchiamo la partecipazione, partecipazione convinta, della maggior parte degli uomini della nostra organizzazione non stiamo su una strada nuova, che porta all’efficienza. Stiamo su una strada vecchia che, temo, porti alla disgregazione.

 

 GIUSEPPE FORTUNA

Tenente colonnello t.ST della Guardia di Finanza

 

 

 


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