IL VERO FALLIMENTO

venerdì 26 maggio 2006

Abbiamo ricevuto dal signor M.F.S. la lettera che appresso integralmente pubblichiamo.

 

""""Scusate, vorrei dire anch’io la mia.

 

Nel corso degli anni mi è successo più di una volta di dovermi confrontare con le asperità di una vita professionale ricca di stimoli e soddisfazioni ma anche non priva di difficoltà e sacrifici di vario genere. In questi casi, tutte le volte che mi sono trovato in affanno mi sono stati di conforto due ricordi della mia gioventù.

 

Il primo mi riportava ai giorni del concorso per l’ammissione in Accademia quando una sera, ritrovandomi in viale XXI Aprile, davanti all’attuale sede del Comando Generale, vicino a uno dei pilastrini d’angolo che delimitavano (e chiudono ancora) il prato davanti alla caserma, elencai a me stesso le buone cose che, a mo’ di voto, sarei stato disposto a fare se fossi riuscito a superare il concorso. E giurai a me stesso di non dimenticarmi mai di quelle promesse e degli ardori, nobili e infantili, di quel momento.

 

Il secondo ricordo, invece, mi riportava a una delle tante raccomandazioni ricevute durante il corso da uno dei nostri comandanti dell’Accademia. Ed era una esortazione, una sorta di viatico che veniva affidato a noi, giovani allievi desiderosi di entrare nel mondo, da un ufficiale con il quale non ho più avuto occasioni di incontri. Era l’invito a mantenere sempre un comportamento responsabile e dignitoso nella nostra futura vita di comandanti di reparto e a non dimenticare mai che per mantenere viva la libertà e l’indipendenza di ufficiali e di uomini sarebbe stato preferibile rifiutare con garbo una cortesia piuttosto che pensare di non doverla ricambiare (perché nulla ci era dovuto). Sicché, ad esempio, se avessimo dovuto accettare un invito in un bel ristorante sarebbe stato doveroso contraccambiarlo, se possibile, in un ristorante ancora più bello, anche a costo di cenare, le sere successive, con un cappuccino.

 

Ma è ancora valido tutto ciò? E’ veramente mai esistito quel mondo? E se esiste ancora, dove è andato a finire? E’ proprio vero che nel comandare, non dovrebbero trovar mai dimora i privilegi ma, al limite, gli “onori”, se in essi non si smarrisse mai la dimensione degli “oneri”.

 

Per me, certo, è ancora tutto di attualità. Ho due figli cui ritengo di dover insegnare che è fondamentale il senso della giustizia, anche a costo di essere intransigenti; che è importante vivere in spirito di accoglienza e di solidarietà nei confronti del prossimo e soprattutto dei più deboli; che è necessario essere disponibili verso la società, nella consapevolezza che tutti possono partecipare alla realizzazione del bene comune e che in tal senso ognuno di noi deve contribuire al miglioramento della realtà in cui è chiamato a vivere.

 

Ma sarà pagante, tutto ciò, per loro? Sarà soddisfacente? Li aiuterà, veramente, nella vita?

 

Credo che prima di rispondere dovremmo convenire sul fatto che la realizzazione di una società migliore (e di un Corpo migliore) dipende innanzitutto da ciascuno di noi, dallo stile che sapremo imporre alle nostre esistenze in relazione a ciò che ci riguarda direttamente, piccoli o grandi che siano gli impegni che siamo chiamati ad osservare: non sottraendoci ai nostri doveri; erogando, nei limiti delle nostre capacità fisiche ed intellettuali, onestamente, il servizio che ci viene richiesto; offrendo la nostra disponibilità collaborativa, consapevoli della gravosità delle responsabilità altrui, senza dimenticarci delle nostre; costituendoci, all’occorrenza, come punto di riferimento per coloro che possono avere bisogno del nostro aiuto; onorando le istituzioni nella consapevolezza che le stesse non ci appartengono ma che, al massimo, delle stesse potremmo solo offrire testimonianza con il nostro operato.

 

E allora, pensando alle recenti vicende che ci riguardano, mi chiedo: quelli che hanno ritenuto di pietire improbabili vantaggi attraverso le tutele di personaggi forse contigui al potere (il potere che deriva da ricchezze solo immaginabili per una persona che viva di stipendio) ma culturalmente prive del benché minimo rispetto di regole condivise, possono pretendere più della pietosa denuncia delle loro umane debolezze? Non sono, forse, loro stessi i primi che non credendo in se o credendovi troppo, a seconda dei casi, pensano di poter addebitare solo agli altri, una volta scoperti (agli altri che fanno parte del sistema che hanno contribuito a realizzare), la responsabilità delle presunte ingiustizie subite così addebitando alla arroganza altrui  i propri piccoli o grandi, veri o fasulli fallimenti? E allora perché meravigliarsi se il Destino fa fare a costoro la stessa impietosa figura di quanti, con la stessa sciocca insensatezza pensarono, in tempi passati, di poter affidare le loro fortune alla nascosta iscrizione a qualche loggia riservata. Ma risparmiamoci, per favore, nella sofferta ricerca di un mondo migliore, la vile esecrazione dei falsi puri (scagli la prima pietra ...).

 

E ancora: a fronte dei comportamenti di quanti, al di fuori del servizio e al di là delle loro intenzioni, hanno, di fatto, compromesso o, addirittura, leso il buon nome dell’Istituzione, l’onorabilità dei suoi appartenenti e la complessiva credibilità delle azioni demandate al Corpo, non è forse necessario, senza pregiudizi ma anche senza troppo facili concessioni, dare tempestivamente un segno dell’attenzione che l’Istituzione ripone per la sua salvaguardia,  avviando tutti gli approfondimenti necessari per accertare, nel concreto, l’effettiva rilevanza dei suddetti comportamenti e per verificarne, se del caso, anche la loro eventuale valenza sul piano disciplinare?

 

E se costoro sono stati chiamati a svolgere, nell’ambito della organizzazione, incarichi che non è eccessivo definire di importanza strategica, per i riflessi che possono determinare - ben oltre la portata degli eventi in discussione – sulla credibilità sostanziale dell’intera Istituzione e sulla capacità di assimilazione delle relative esperienze da parte delle nuove generazioni, non è forse legittimo auspicare che tali iniziative possano tradursi, senza ritardo, anche in provvedimenti concreti e non di facciata in grado – al di là di ogni intento, meramente, punitivo – di sottrarre l’Istituzione e i suoi appartenenti alle prevedibili speculazioni che potrebbero comprometterne il prestigio e l’onorabilità?

 

Io credo di si. Questo, del resto, viene fatto per ogni appartenente del Corpo che “finisce sul giornale”. Questo farei se ne avessi la responsabilità e questo mi aspetterei dall’Istituzione.

 

Ciò detto, credo che, per quanto riguarda il Corpo, chi ne fa parte deve essere consapevole - senza ipocrite indulgenze e sottovalutazioni  - che dinanzi alla pubblica opinione, solo il rispetto sostanziale e formale delle regole può dare conto della effettiva esistenza (o meno), nell’ambito della Istituzione, dei nobili sentimenti che dovrebbero appartenere a tutti i servitori dello Stato. Non si possono evitare gli errori degli uomini ma di fronte ad essi bisogna produrre, nel concreto, ogni sforzo per porvi i necessari rimedi. E trarne le necessarie conseguenze. Ed è compito di chi ne ha la responsabilità assumere le relative  iniziative e di tutti coloro che ne fanno parte pretendere che questo avvenga ad opera della Istituzione, salvo perdere ogni credibilità.

 

Quando penso al futuro, credo che il mio più grande rammarico potrebbe verificarsi se, tra qualche anno, ai miei figli che dovessero magari parteciparmi il loro desiderio di entrare nel Corpo io pensassi, per il loro bene, di dissuaderli da tale intendimento, per aver scoperto di non poter più credere nella Istituzione di cui io stesso ho fatto parte. Sarebbe forse quello, il mio vero fallimento. Molto più di una presunta carriera non fatta. Perché avrei dovuto trovare in me la forza di andarmene, per tempo, da una organizzazione che non c’era e che, invece, a tutt’oggi, sento di amare ancora con tutto il cuore.

 

M.F.S."""

 

25 maggio 2006


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