QUANDO TRA VERITÀ STORICA E VERITÀ PROCESSUALE CI SONO IN MEZZO CARRIERE E IMMAGINE. LA SOLUZIONE DEL DIVIETO DI AUTO-INDAGINE - di Cleto Iafrate

mercoledì 21 febbraio 2024

Depistaggi per salvare l’immagine dell’Arma”, è questa la pesante accusa che il Tribunale di Roma ha messo nero su bianco nelle corpose motivazioni alla sentenza di condanna di alcuni militari per i depistaggi messi in atto dopo il decesso di Stefano Cucchi. Nel documento si parla espressamente di attività di sviamento posta in essere nell’immediatezza della morte di Cucchi volte ad allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri per evitare le possibili ricadute sul vertice di comando del territorio capitolino”.

Al centro del caso vi era l’ordine di modificare alcune dichiarazioni, in modo da escludere “ogni possibile coinvolgimento dei militari” così che “l’immagine e la carriera dei vertici territoriali non fosse minata”.

Come è potuto accadere questo e, soprattutto, cosa si può fare per evitare che possa accadere di nuovo?

Nei corpi di polizia esiste una cosa che si chiama “responsabilità riflessa”: il superiore è in qualche modo responsabile di quello che fanno i suoi sottoposti, tant’è che non a caso si parla di corpi di polizia, laddove gli esecutori rappresentano “il braccio” e i vertici “la testa”.

Perciò, un fatto commesso da un carabiniere o da un finanziere da cui derivi un danno all’immagine del “corpo” si può riflettere negativamente sulla carriera dei comandanti, i quali rischiano procedimenti disciplinari per “negligenza nel governo del personale e per non aver vigilato e controllato sul corretto operato dei propri dipendenti” (art. 751, punto 18, DPR 90/2010), con rischio di abbassamenti delle note caratteristiche e di modifiche in peius delle “Qualità professionali” alle voci “Governo del personale”, “Capacità organizzativa” e “Capacità di giudicare i dipendenti”.

Da cui la tentazione di sacrificare la verità sugli altari dell’immagine e delle carriere.

Questo è il motivo per cui non di rado nel gruppo Facebook “Osservatorio Suicidi in Divisa” i familiari degli agenti che si sono tolti la vita manifestano perplessità sul fatto che le indagini sulle morti dei loro cari siano condotte dal corpo di appartenenza. Indagini che quasi sempre giungono alla stessa conclusione, ovverosia che il suicidio sia originato da  “problemi personali e familiari”. 

Per evitare il rischio di pressioni sui sottoposti, ai quali l’ordinamento militare impone il signorsì [1], andrebbe introdotto nel nostro ordinamento il divieto per i corpi di polizia di indagare su sé stessi. Un divieto di auto-indagine, simile a quello già previsto dall’art. 11 del codice di procedura penale per i procedimenti nei confronti di magistrati, che potrebbe essere così formulato:

«1. I procedimenti per reati commessi da un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria esercita le sue funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge.

2. Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria è venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, è competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d’appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.

3. I procedimenti connessi a quelli previsti dal primo e dal secondo comma sono di competenza del giudice individuato a norma del comma 1.»

La Francia da tempo si è dotata di una norma di questo tipo. L’art. 43 del Code de procédure pénale, come modificato dalla legge n. 222/2019, prevede che nei procedimenti in cui figura come indagato o come persona offesa un militare della gendarmeria, un funzionario della polizia nazionale giudiziaria, delle dogane o dell’amministrazione penitenziaria o un altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che per l’esercizio delle sue funzioni abitualmente lavori a fianco di magistrati o funzionari dell’amministrazione giudiziaria, il procuratore generale, d’ufficio o a richiesta del procuratore della Repubblica e della persona interessata, può rimettere il procedimento al procuratore della Repubblica presso il tribunale più vicino tra quelli dello stesso distretto di corte d’appello. Norma che si applica anche nei casi in cui indagato o persona offesa dal reato sia un magistrato o un avvocato.

In conclusione, nelle istituzioni pubbliche i panni sporchi non si devono lavare “in casa” ma alla luce del sole, ché altrimenti … possono fare cattivo odore.


CLETO IAFRATE

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 Nota

[1] Per un approfondimento sul tema dell’obbedienza militare, si veda  “Obbedienza, Ordine illegittimo e ordinamento militare” http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2016_n16-2/b-studi_03%20Iafrate.pdf.

Bibliografia

PER LA RIMESSIONE DELLE INDAGINI SUI REATI DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA di Ennio Amodio, Elena Maria Catalano, in Diritto Penale Contemporaneo.


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