TAR 2016 PIEMONTE: I MILITARI POSSONO SVOLGERE ATTIVITA' POLITICA, ILLEGITTIMA L'AZIONE DISCIPLINARE NEI CONFRONTI DI UN CARABINIERE
TAR 2016 PIEMONTE: I MILITARI POSSONO SVOLGERE ATTIVITA' POLITICA, ILLEGITTIMA L'AZIONE DISCIPLINARE NEI CONFRONTI DI UN CARABINIERE
Segnaliamo la sentenza 1127/2016 del Tar Piemonte inerente l'annosa questione dell'attività poltica dei militari.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1264 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
CARMELO CATALDI, rappresentato e difeso dagli avvocati Marina Campagnaro C.F. CMPMRN61C57L219E, Giorgio Carta C.F. CRTGRG70H15B354W, con domicilio eletto presso Marina Campagnaro in Torino, via Principi D'Acaja, 11;
contro
MINISTERO DELLA DIFESA, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliata in Torino, corso Stati Uniti, 45;
per l'annullamento
della nota n. 3241/10-2009-D del 31.8.2010, con la quale il Comandante del Comando Legione Carabinieri Piemonte e Valle d'Aosta, SM - Ufficio Personale ha ammonito il ricorrente a recedere dalla carica di segretario regionale di partito politico;
della nota del Gabinetto del Ministero della Difesa del 3.7.2009, prot. 1/28411/2.6.32/06ML;
della nota n. 81/19-136-2-1981 del 20.6.2010, del sottocapo di stato maggiore del Comando generale dell'Arma dei Carabinieri;
della comunicazione n. 3241/20-2009-D del 28.9.2010 del Comandante della Legione Carabinieri Piemonte e Valle d'Aosta;
con i motivi aggiunti, depositati in data 11.7.2011:
della determinazione n. 171/3 di protocollo del 1° aprile 2011, con la quale il Comandante Interregionale Carabinieri Pastrengo ha rigettato il ricorso gerarchico proposto dal ricorrente avverso la determinazione n. 3241/65-2009-D di protocollo del 9.12.2010, con la quale il Comandante della Legione Carabinieri Piemonte e Valle d'Aosta ha inflitto al ricorrente la sanzione disciplinare di corpo della "Consegna di rigore di giorni cinque", per la mancanza compendiata nella seguente motivazione: "Maresciallo a. s. UPS comunicava al proprio comando di essersi iscritto a partito politico; avere assunto carica sociale quale segretario regionale in seno ad altro partito politico, respingendo reiteratamente ogni invito a recedere, in violazione dei doveri attinenti al grado ed alle funzioni del proprio stato, nonché del principio di estraneità delle FF.AA. alle competizioni politiche";
della determinazione n. 3241/65-2009-D di protocollo del 9.12.2010 del Comandante della Legione Carabinieri Piemonte e Valle d'Aosta;
di tutti gli atti presupposti, conseguenti connessi .
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 giugno 2016 il dott. Antonino Masaracchia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il sig. Carmelo Cataldi, Maresciallo Aiutante Sostituto Ufficiale di Pubblica Sicurezza dei Carabinieri, effettivo presso il Nucleo Operativo Radiomobile della Compagnia di Bra (CN), aveva comunicato ai propri superiori la circostanza di aver assunto la carica politica di Segretario regionale per il Piemonte in seno al PSD–Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa. Con provvedimento prot. n. 3241/10-2009-D, del 31 agosto 2010, tuttavia, il Comandante della Legione Carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” lo ha formalmente ammonito a recedere dalla carica politica avvertendolo che, in caso di inottemperanza, sarebbe stato avviato il procedimento per la diffida ministeriale ed eventuale successiva decadenza dal servizio, ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 3, dell’(allora vigente) legge n. 37 del 1968.
Nella motivazione di tale atto l’amministrazione ha sostenuto che “l’iscrizione e l’assunzione di carica sociale in seno a partito politico, costituisce comportamento suscettibile di assumere rilievo sotto il profilo disciplinare, ai sensi del nr. 9 dell’allegato ‘C’ al R.D.M.” (Regolamento di Disciplina Militare, di cui al d.P.R. n. 545 del 1986), trattandosi di “incarico incompatibile con l’adempimento dei Suoi doveri di sottufficiale”, in proposito richiamando l’(allora vigente) art. 6, comma 1, della legge n. 382 del 1978, a norma del quale “Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche”. L’amministrazione ha anche aggiunto che la carica politica ricoperta dal Maresciallo Cataldi “implica necessariamente l’esercizio di funzioni attive a carattere propriamente politico, atteso che, quale Segretario Regionale, la S.V. siede – oltretutto con voto deliberativo – sia nel Consiglio Nazionale che nella Direzione Nazionale del partito, ex artt. 9 e 10 dello statuto del partito medesimo”.
Avverso detto provvedimento (nonché altri atti di mera portata endoprocedimentale) il Maresciallo Cataldi ha proposto il ricorso di cui all’epigrafe, domandandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, sollevando un unico, complesso motivo di gravame in seno al quale sono individuabili i seguenti profili di impugnazione:
- violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, comma 2, della legge n. 382 del 1978 (ora, art. 1465 del d.lgs. n. 66 del 2010): in base alla legge, i militari incontrerebbero solo i divieti espressamente indicati, non suscettibili di interpretazioni estensive, e quindi, a titolo personale e fuori dal servizio, ben potrebbero partecipare a riunioni e manifestazioni politiche, nonché iscriversi e svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni, senza per questo dover subire alcuna ripercussione in ambito disciplinare e/o sul servizio svolto;
- difetto di motivazione: l’atto impugnato ometterebbe di specificare, compiutamente, in relazione a quali doveri specifici del sottufficiale dell’Arma risulterebbe inconciliabile la condotta a lui contestata;
- violazione dell’art. 49 Cost. e dell’art. 6, commi 3, 4 e 5, della legge n. 382 del 1978; irragionevolezza: la tesi propugnata dall’amministrazione si sostanzierebbe nell’esclusione di qualsiasi forma di esercizio di attività politica per i cittadini militari;
- violazione e falsa applicazione del principio di estraneità delle Forze armate dalle competizioni politiche (principio sancito, adesso, dall’art. 1483, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010): tale principio riguarderebbe le Forze armate complessivamente considerate come istituzione e non sarebbe, invece, riferibile al singolo militare;
- eccesso di potere per contraddittorietà, avuto riguardo al tenore dell’iniziale posizione assunta dal medesimo Comandante della Legione Carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta”, quando aveva avanzato una richiesta di quesito al superiore Comando Interregionale.
2. Si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, depositando documenti e chiedendo il rigetto del gravame, previa disamina, nel merito, delle censure di parte ricorrente.
Il ricorrente ha replicato con lunga memoria difensiva depositata il 10 gennaio 2011.
Con ordinanza n. 1 del 2011 questo TAR ha respinto la domanda cautelare, non ravvisando la sussistenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, pur avvertendo che “residuano dubbi sull’ammissibilità dell’iscrizione di militari a partiti politici, che dovranno essere approfonditi nella deputata sede di merito”.
Con ordinanza n. 1319 del 2011 il Consiglio di Stato, sez. IV, ha respinto l’appello proposto avverso l’ordinanza cautelare di questo TAR.
3. Nelle more del giudizio, in data 9 dicembre 2010 il Comandante della Legione Carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” ha inflitto al Maresciallo Cataldi la sanzione disciplinare di giorni 5 di consegna di rigore, richiamando in motivazione la circostanza che quest’ultimo si era iscritto ad un partito politico (nella specie, questa volta, quello denominato “Lega Nord– Bossi”) ed aveva assunto, in seno ad altro partito politico (il già menzionato PSD), la carica di Segretario regionale, e ciò peraltro aveva fatto “respingendo reiteratamente ogni invito a recedere, in violazione dei doveri attinenti al grado ed alle funzioni del proprio stato, nonché del principio di estraneità delle FF.AA. alle competizioni politiche”. Il Maresciallo Cataldi ha presentato ricorso gerarchico dinnanzi al Comando Interregionale Carabinieri “Pastrengo” il cui Comandante, tuttavia, con provvedimento prot. n. 171/3, del 1° aprile 2011, ne ha deciso il rigetto ritenendo, a propria volta, che “il comportamento posto in essere dal ricorrente ha costituito violazione degli artt. 10, commi 2 e 3, e 29 del R.D.M. in relazione ai nn. 3 e 9 dell’allegato ‘C’ al medesimo Regolamento”.
Con motivi aggiunti depositati l’11 luglio 2011 il ricorrente ha quindi impugnato, dinnanzi a questo TAR, il provvedimento di rigetto del ricorso gerarchico, insieme all’atto presupposto di inflizione della sanzione disciplinare, chiedendone l’annullamento, previa sospensione cautelare, sollevando in diritto i seguenti profili di impugnazione:
- illegittimità derivata (con richiamo ai motivi del ricorso introduttivo);
- violazione del principio del ne bis in idem, in quanto, in un primo momento, il Comandante della Compagnia – in base a quanto riferisce il ricorrente – avrebbe deciso di non dare luogo al procedimento disciplinare ma successivamente, il 4 agosto 2010, avrebbe mutato opinione tornando sui propri passi;
- violazione dell’art. 10, lett. b, della legge n. 241 del 1990, in quanto, in sede di disamina del ricorso gerarchico, il Comandante Interregionale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla censura relativa alla violazione del ne bis in idem, pur sollevata dal ricorrente;
- violazione del principio del ne bis in idem sotto altro profilo, in quanto anche il Comandante Interregionale (con nota del 23 febbraio 2010) avrebbe inizialmente sostenuto la non perseguibilità del comportamento posto in essere dal militare;
- eccesso di potere per ingiustizia e discriminazione, in quanto la sanzione sarebbe stata applicata “nonostante la confusione e l’incertezza che, sul punto, l’amministrazione ha contribuito a creare”;
- violazione dell’art. 59 del d.P.R. n. 545 del 1986 per tardività della contestazione disciplinare;
- eccesso di potere per genericità della contestazione disciplinare e per conseguente difetto di motivazione;
- eccesso di potere derivante dal fatto che, secondo il ricorrente, “il militare risulta obbligato solamente ad eseguire gli ordini che provengono dai propri superiori gerarchici” ma non anche ad adempiere ai meri “inviti” (nel caso di specie, si trattava dell’“invito a recedere” dall’attività politica) i quali non rivestirebbero “alcun valore cogente”;
- violazione dell’art. 751, comma 1, lett. a, n. 10, del d.P.R. n. 90 del 2010, in quanto la sanzione della consegna di rigore potrebbe essere irrogata solo per i comportamenti ivi indicati (partecipazione a riunioni o manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, o svolgimento di propaganda a favore o contro partiti, associazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative) purché però essi siano tenuti – come precisa la norma – “nelle condizioni indicate nell’articolo 1350, comma 2, del codice (articolo 1483 del codice)” le quali, a propria volta, richiamano comportamenti posti in essere durante il servizio attivo o comunque collegati con l’espletamento del servizio attivo;
- violazione di norme sovranazionali, tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art. 2), il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (artt. 2 e 25), la Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (artt. 1 e 14) e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 12);
- eccesso di potere per discriminazione rispetto alla situazione di altri militari e per il conseguente “carattere persecutorio” della condotta tenuta dall’amministrazione nei confronti del ricorrente;
- violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa.
4. Con memoria depositata il 3 settembre 2011 la difesa erariale ha sinteticamente replicato alle censure di cui ai motivi aggiunti, insistendo per il rigetto del gravame.
Con ordinanza n. 568 del 2011 questo TAR ha respinto la domanda cautelare di cui ai motivi aggiunti.
5. In vista della pubblica discussione sul merito, il ricorrente ha depositato una breve memoria difensiva in data 4 maggio 2016, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali ed insistendo per l’accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti.
Alla pubblica udienza del 29 giugno 2016, quindi, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. E’ controversa, nel presente giudizio, la legittimità del divieto, frapposto ad un Carabiniere dalla sua amministrazione di appartenenza, di iscriversi e di assumere cariche all’interno di un partito politico (nella specie, si tratta della carica di Segretario regionale). In particolare, oggetto di impugnazione sono l’ammonimento a recedere dalla carica politica rivestita (ricorso introduttivo) e la successiva inflizione della sanzione disciplinare della consegna di rigore pari a cinque giorni (motivi aggiunti).
Secondo il ricorrente tale divieto si porrebbe in contrasto con l’art. 49 Cost. che consente a tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti politici per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale, mentre – con più specifico riferimento all’ordinamento militare – le restrizioni imposte con l’art. 6 della legge n. 382 del 1978 (ed oggi con l’art. 1483 del d.lgs. n. 66 del 2010) non sarebbero suscettibili di interpretazioni estensive e quindi comunque consentirebbero ai militari di iscriversi in partiti politici e di assumervi cariche al di fuori delle fattispecie ivi contemplate. Secondo la difesa erariale, invece, le richiamate norme, anche alla luce della loro ratio di fondo, avrebbero introdotto una regola di carattere generale, tale da vietare qualsivoglia coinvolgimento politico del militare (sia in servizio attivo, sia in servizio non attivo), ossia tale da determinare per la categoria dei militari quel divieto generalizzato di svolgere attività politica che, ai sensi dell’art. 98, comma 3, Cost., il legislatore è autorizzato ad introdurre nel nostro ordinamento.
2. Il ricorso, ed i motivi aggiunti, sono fondati.
La questione oggetto del presente giudizio è stata, da ultimo, approfondita da alcuni arresti giurisprudenziali che, per fattispecie del tutto analoghe, ed in considerazione del complessivo quadro normativo (costituzionale e legislativo) vigente, sono giunti alla condivisibile conclusione di ritenere illegittimo il divieto per i militari di iscriversi in partiti politici e di assumere nel loro ambito cariche direttive, alla luce di un’interpretazione letterale e sistematica delle norme (cfr. TAR Umbria, sent. n. 409 del 2011; TAR Veneto, sez. I, sent. n. 1480 del 2012).
Va poi avvertito che gli atti in questa sede impugnati sono stati adottati in un periodo che si pone temporalmente a cavallo dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 66 del 2010 (“Codice dell’ordinamento militare”): più in particolare, l’ammonimento a recedere dalla carica politica è stato formalizzato quando era ancora vigente la legge n. 382 del 1978 (“Norme di principio sulla disciplina militare”), mentre l’irrogazione della sanzione disciplinare è intervenuta a nuovo codice già in vigore. In ogni caso, la disciplina normativa qui rilevante può essere ricostruita con esclusivo riferimento alle norme dettate dal nuovo codice (d.lgs. n. 66 del 2010) in quanto quest’ultimo, per ciò che concerne l’esercizio dei diritti politici del militare, e limitatamente a quanto rileva in questa sede, appare meramente ricognitivo delle norme già dettate dalla legge del 1978.
2.1. Imprescindibile punto di partenza è l’art. 49 Cost., a norma del quale “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Le possibili limitazioni sono consentite al legislatore secondo quanto previsto dall’art. 98, comma 3, Cost.: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero”. Tuttavia, il legislatore non ha mai stabilito per i militari, in modo duraturo, un esplicito divieto di iscrizione ai partiti politici: ciò non ha fatto, espressamente, né nella legge n. 382 del 1978 (recante “Norme di principio sulla disciplina militare”) né nel Regolamento di disciplina militare (approvato con d.P.R. n. 545 del 1986). Vi è solo stata la norma dichiaratamente transitoria di cui all’art. 114 della legge n. 121 del 1981 con cui si è stabilito, in attesa di una disciplina generale di attuazione dell’art. 98, comma 3, Cost., che, “comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge”, “gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge [tra cui, anche l’Arma dei Carabinieri, n.d.r.] non possono iscriversi ai partiti politici”.
Tale divieto transitorio è stato poi prorogato di anno in anno, con successivi interventi legislativi, fino al 31 dicembre 1990 (da ultimo, con la proroga disposta dall’art. 1 del decreto-legge n. 81 del 1990, convertito in legge n. 159 del 1990) e poi non è stato più rinnovato. E’, quest’ultima, una circostanza senz’altro rilevante ai fini di ricostruire l’attuale volontà del legislatore: nemmeno con il varo del codice dell’ordinamento militare (d.lgs. n. 66 del 2010), ossia della disciplina che si propone di regolare, in modo organico, l'organizzazione, le funzioni e l'attività della difesa e sicurezza militare e delle Forze armate, quel divieto è stato più riproposto o, comunque, riformulato.
Piuttosto, il d.lgs. n. 66 del 2010 ha ripreso, con minime modifiche, la disciplina che, in punto di esercizio dei diritti politici del militare, era già stata introdotta con l’art. 6 della legge n. 382 del 1978. E’ stato così ribadito il generale principio di estraneità delle Forze Armate dalle competizioni politiche (art. 1483, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010: “Le Forze armate devono in ogni circostanza mantenersi al di fuori dalle competizioni politiche”, corrispondente al testo dell’art. 6, comma 1, della legge n. 382 del 1978), ed è stato confermato l’unico specifico divieto già introdotto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 382 del 1978: “Ai militari che si trovino nelle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo 1350, è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative” (così l’attuale art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010).
2.2. Proprio queste ultime sono le norme valorizzate dall’amministrazione resistente per affermare l’esistenza, nel nostro ordinamento, del divieto di iscrizione dei militari ai partiti politici.
Secondo la difesa erariale, in particolare, il legislatore, nell’enunciare il generale principio della terzietà delle Forze Armate rispetto all’agone politico e nel delineare l’espresso divieto di partecipazione alle manifestazioni politiche o di propaganda politica (art. 1483, commi 1 e 2, d.lgs. n. 66 del 2010), minus dixit quam voluit. Entrambe queste disposizioni rimarrebbero integre e non vulnerate solo rimuovendo ogni possibilità di iscrizione dei militari ai partiti politici (e, a fortiori, di assunzione di cariche direttive): tali situazioni, infatti, comporterebbero “l’instaurazione di un rapporto organico con il sodalizio, che implica soggezione alle norme statutarie”, con la conseguente “contrazione di un vincolo obbligatorio”, in capo al singolo militare (una vera e propria “obbligazione ad osservare un ordinamento interno di diritto privato”), “teleologicamente concepito per lo svolgimento di attività politica in concreto, con sicure ricadute in termini di violazione della fattispecie di cui al comma 2 dell’art. 1483”, e con possibili “refluenze anche sul versante del corretto funzionamento degli organi della Rappresentanza militare”. Insomma, secondo l’amministrazione il divieto di svolgimento di attività politica riunirebbe in sé anche quello di mera iscrizione (o di assunzione di cariche) nei partiti politici, “pena l’esposizione della norma a censura d’irrazionalità”. Si tratta, del resto, delle conclusioni cui è pervenuta l’amministrazione nell’impugnato atto di ammonimento, laddove l’assunzione della carica direttiva all’interno di un partito politico è stata valutata nel senso di implicare necessariamente l’esercizio di funzioni attive a carattere politico e, quindi, per ciò solo ricadente nel divieto di cui all’art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010.
Sennonché a conclusione diversa fa propendere la circostanza che, quando il legislatore ha voluto – sia pure transitoriamente – introdurre un divieto di iscrizione dei militari ai partiti politici, ciò ha fatto con formula inequivocabilmente precisa e perentoria (“gli appartenenti alle forze di polizia [...] non possono iscriversi ai partiti politici”: art. 114 della legge n. 121 del 1981), poi non più riproposta nemmeno nella nuova disciplina organica dell’ordinamento militare. E solo una formula di tal fatta sarebbe stata idonea, nel vigente quadro costituzionale, ad introdurre quella limitazione che, in quanto eccezione ad un diritto fondamentale dei cittadini (quello di cui all’art. 49 Cost.), e pur se frutto di un bilanciamento tra contrapposte esigenze costituzionali, è non a caso assistita dalla garanzia della riserva di legge (art. 98, comma 3, Cost.). Al contrario, nella disciplina di legge attualmente vigente non è rinvenibile alcuna disposizione che, in modo espresso ed inequivoco, faccia divieto ai militari di iscriversi in partiti politici o di assumere cariche nel loro seno.
In tale quadro, quindi, le preoccupazioni esternate dalla difesa erariale (riguardanti le possibili ricadute sulle garanzie di imparzialità e di buon funzionamento delle Forze Armate) potrebbero al più essere valutate dal legislatore in una prospettiva de iure condendo, cioè in quanto possibili argomenti a favore di una reintroduzione, questa volta duratura e non più transitoria, del divieto di iscrizione per i militari ai partiti politici, secondo la sua prudente valutazione discrezionale. Quelle stesse argomentazioni, in un’ottica de iure condito, non possono invece condurre all’interpretazione estensiva di un precetto (quello di cui all’art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010) che rimane ancorato, letteralmente, al solo divieto di partecipare a manifestazioni politiche o di svolgere propaganda politica, per di più solo in presenza delle particolari modalità di esercizio di cui al richiamato art. 1350, comma 2 (servizio attivo), ponendosi in tal modo al di fuori della garanzia costituzionale della riserva di legge.
2.3. Quest’ultima annotazione, peraltro, consente di superare un’ulteriore argomentazione spesa dalla difesa erariale la quale, nel tentativo di dimostrare che la legge imporrebbe sempre ai militari di osservare le statuizioni di cui all’art. 1483 del d.lgs. n. 66 del 2010 – e, quindi, in tesi, “non solo durante la prestazione del servizio attivo” – sostiene che le norme relative alle limitazioni loro imposte nell’esercizio dei diritti troverebbero costante applicazione per tutta la durata del rapporto di servizio, al fine di “tutelare l’equilibrato rapporto tra società e Forze armate”. Ciò, secondo l’Avvocatura, discenderebbe dal comma 1 dell’art. 1350 del d.lgs. n. 66 del 2010, a norma del quale “I militari sono tenuti all'osservanza delle norme sulla disciplina militare e sui limiti all'esercizio dei diritti, dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo...”.
Tuttavia questa disposizione, di natura generale, non può considerarsi prevalente rispetto ad altre disposizioni dello stesso codice che, espressamente, e con riguardo ad ambiti più specifici, dispongono una più circoscritta limitazione dei diritti dei militari. Ed è, questo, proprio il caso dell’art. 1483, comma 2, del codice il quale, nell’imporre la già menzionata limitazione al diritto di partecipare a manifestazioni politiche e a quello di effettuare propaganda politica attiva, espressamente la circoscrive alle sole ipotesi di cui all’art. 1350, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010, ossia alle ipotesi in cui il militare si trovi in servizio attivo o la cui attività si trovi in qualche modo collegata a luoghi o a simbologie che, richiamando immediatamente la sua appartenenza all’Arma, possano ingenerare il rischio di inquinamento politico in capo all’amministrazione di appartenenza. Ed infatti il richiamato art. 1350, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010 si riferisce ai militari che si trovino nelle seguenti situazioni: “a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l'uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”. Solo allorché ricorrano queste circostanze, quindi, per il militare scatta il divieto di partecipare a manifestazioni politiche o di svolgere propaganda politica; laddove invece il militare non si trovi a svolgere attività di servizio né si trovi nelle altre circostanze di luogo o di fatto descritte, quei divieti – per espressa disposizione di legge – non sussistono.
Come ritenuto in giurisprudenza, pertanto, anche lo stesso principio di estraneità delle Forze Armate rispetto alle competizioni politiche, sancito dal comma 1 dell’articolo 1483 del Codice dell’ordinamento militare, sulla base delle disposizioni richiamate, non può essere inteso estensivamente, sì da essere riferibile anche ai comportamenti tenuti da ciascun singolo appartenente come privato cittadino o comunque oggettivamente estranei all’attività di servizio, ovvero svolti al di fuori di luoghi militari o comunque destinati al servizio, in una parola con modalità di fatto o di luogo diverse da quelle indicate dal comma 2 dell’art. 1350. L’obbligo espresso per le Forze armate di mantenersi, in ogni circostanza, al di fuori dalle competizioni politiche è, infatti, univocamente limitato, dall’art. 1350, comma 2, a coloro i quali si trovino “in una” delle condizioni ivi tassativamente indicate, con la conseguenza che esso non può essere esteso a tutti i militari sulla base della mera condizione soggettiva di essere un appartenente alle Forze armate (così TAR Veneto, sez. I, sent. n. 1480 del 2012).
E’ comunque il caso di ribadire che i descritti divieti, anche qualora ricorrenti per le condizioni di fatto o di luogo descritte dal comma 2 dell’art. 1350, riguardano unicamente i comportamenti descritti dall’art. 1483, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010, nei quali – per quanto già detto in precedenza – non rientra la mera iscrizione in partiti politici o l’assunzione di una carica direttiva in seno ad essi.
2.4. Deve pertanto essere ribadito – come pure, di recente, statuito in giurisprudenza – che il principio di estraneità delle Forze Armate alle competizioni politiche, già sancito dal comma 1 dell’articolo 6 della legge n. 382 del 1978, ed oggi ripreso dall’art. 1483, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010, non può essere inteso estensivamente, come riferibile anche ai comportamenti tenuti da ciascun singolo appartenente. Altrimenti – a parte la evidente difficoltà di ritenere che i comportamenti dei singoli siano in grado di “impegnare”, o possano di per sé risultare rappresentativi di un orientamento dell’insieme dell’Istituzione cui appartengono – non vi sarebbe stato bisogno di precisare, al comma 2, il divieto di svolgere attività politica per i (singoli) “militari”. D’altra parte, detto divieto espresso è (come visto) univocamente limitato a coloro i quali si trovino nelle condizioni previste dal comma 2 dell’art. 1350 del d.lgs. n. 66 del 2010, e quindi non a tutti i militari, comunque soggetti alle disposizioni di disciplina del settore (così TAR Umbria, sent. n. 409 del 2011).
2.5. Nel caso in esame, è pacifico che i comportamenti contestati al ricorrente non siano in alcun modo riconducibili alle condizioni, di luogo, di tempo o di modo, considerate dalle predette disposizioni: il ricorrente si è iscritto ad un partito, ed ha svolto attività politica assumendo cariche direttive in seno ad un partito politico, ma ciò – stando a quello che risulta dagli atti – senza che sia mai stato provato o che gli sia mai stato contestato di aver effettivamente preso parte a manifestazioni politiche o di propaganda politica, e comunque non durante l’attività di servizio, né in luoghi a ciò destinati, né indossando l’uniforme o qualificandosi in relazione all’attività di servizio come militare o rivolgendosi ad altri militari in divisa o qualificatisi come tali.
Di conseguenza, con assorbimento delle ulteriori censure, il ricorso introduttivo deve essere accolto e deve, per l’effetto, disporsi l’annullamento dell’atto di ammonimento a recedere dalla carica politica rivestita. Parimenti, risultando fondata la censura di illegittimità derivata, e con assorbimento delle ulteriori censure, vanno accolti anche i motivi aggiunti, con conseguente annullamento della sanzione disciplinare inflitta al ricorrente (pari a giorni cinque di consegna di rigore).
3. In considerazione della complessità e della natura della presente controversia, tuttavia, le spese di giudizio possono essere compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione prima, definitivamente pronunciando,
Accoglie il ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 29 giugno 2016 con l'intervento dei magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Antonino Masaracchia, Primo Referendario, Estensore
Giovanni Pescatore, Primo Referendario
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
Antonino Masaracchia | Domenico Giordano | |