CASO COMELLINI, APARTHEID DEI DIRITTI PER I MILITARI E DEBOLEZZA DELLA POLITICA – di Antonella Manotti
Nel 2008, l’anno appena trascorso, abbiamo “ricordato” due importanti avvenimenti:
il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e i 60 anni della Nostra Costituzione.
Il 10 dicembre l’Italia firmava la Dichiarazione sui Diritti ed il 1° gennaio 1948 entrava in vigore la Costituzione Italiana.
Questi anni trascorsi, sembrano non aver scalfito, però, l’inossidabile barriera che, ancor oggi, impedisce che diritti fondamentali non trovino nel mondo militare applicazione e rispetto.
L’ultima vicenda, l’ultima di una lunga serie, vede un maresciallo dell'Aeronautica, Luca Marco Comellini, sposato e con un figlio di 5 anni, sotto inchiesta disciplinare da parte delle gerarchie militari per avere esercitato alcuni diritti sanciti dalla Costituzione, giunto – mentre scrivo – al 13° giorno di sciopero della fame.
Lo dicevamo: il caso è l’ultimo di una lunga serie che per chi, come la sottoscritta, segue da oltre trent’anni, le vicende del mondo militare, rappresenta il peggior modo per celebrare i due importanti avvenimenti ricordati in apertura.
Trent’anni di vita professionale che mi hanno portato a conoscere da vicino molte esperienze analoghe a quelle del M.llo Comellini. Vicende umane e professionali che hanno coinvolto cittadini i quali, con le loro azioni, non attentavano ai principi gerarchici o a smantellare l’ordinamento delle Forze Armate, ma semplicemente ad esercitare e a rivendicare, per tutti i militari, i diritti inalienabili sanciti dalla Carta Costituzionale.
Partendo dalla vicenda di Comellini, vorrei riprendere alcune riflessioni che sono state oggetto di un mio recente intervento, sulle pagine del Nuovo Giornale dei Militari.
Ricordavo, in quella sede che, in coincidenza con l’anniversario della Nostra Costituzione, “cadeva” anche quello della Legge sui Principi.
L’11 luglio 1978 veniva emanata, infatti, la legge 382, sulle “Norme di principio della disciplina militare”.
60 anni la Costituzione, 30 anni, la legge.
La prima, non è affatto datata; anzi, a distanza di anni, il suo spirito non è cambiato ed ha continuato ad assolvere un compito fondamentale: quello di dettare le regole del vivere comune, ad essere pilastro della democrazia uscita dai lutti, dalle macerie e dalle lacerazioni della seconda guerra mondiale.
La seconda, invece, la cosiddetta legge sui Principi, mostra tutti i suoi limiti, pur rappresentando in quegli anni, una importante tappa nel processo di democratizzazione delle Forze Armate.
Anni di grandi cambiamenti. Movimenti sociali e politici scuotevano il tessuto nazionale ed anche nel mondo militare, pur tra grandi difficoltà, si fece strada un movimento riformatore che rivendicava più diritti e dignità per il “lavoratori” con le stellette.
La 382 rappresentò una risposta, seppur parziale, a queste istanze, aprendo un percorso democratico che avrebbe dovuto trovare, nella istituzione della rappresentanza militare, il veicolo per far camminare e progredire la partecipazione democratica dei cittadini militari, le cui istanze erano rimaste fino ad allora “custodite” e gestite, come questioni interne ad un corpo separato dello Stato.
I limiti della legge ma, ancor più, le norme che regolamentarono il funzionamento degli organismi di rappresentanza rivelarono ben presto, l’incapacità delle stesse Rappresentanze, di poter assolvere compiutamente quel ruolo di tutela in grado di rendere “fruibili”, anche ai cittadini militari, i diritti costituzionali. In particolare, quelli sanciti dagli articoli 3, 18, 21 e 39 della carta Costituzionale.
Molte le resistenze, tanti gli ostacoli frutto di atteggiamenti di conservazione e di chiusura provenienti dall’interno della struttura militare, ma anche debolezza della politica, che non fu in grado di esercitare quel “controllo democratico” sugli atti applicativi della legge e sulla possibilità che, ai cittadini militari non venissero negati i diritti costituzionali.
Sarebbe stato opportuno avere in mente, sempre, l’art. 52 della Carta, laddove si afferma che “l’ordinamento delle FF.AA. si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Sarebbe stato sufficiente comprendere che, la Costituzione, non è solo la carta fondamentale su cui si fonda la vita collettiva di una Nazione. Essa prefigura anche un modello di società. E, se la società italiana, in questi 60 anni, si è sviluppata in maniera democratica, pluralista e partecipata, lo si deve in gran parte alla Costituzione del ’48.
Le norme in essa contenute, ispirate ai principi della solidarietà, della pace, dell’uguaglianza e della libertà, hanno sostenuto ed agevolato tale sviluppo. Perché, non avrebbero dovuto consentire tutto ciò, anche ai militari, che pur fanno parte di questa comunità nazionale? In questi trent’anni, perché le regole fondamentali dell’ordinamento costituzionale – patrimonio di tutta la comunità – non hanno trovato, nel mondo militare, piena attuazione?
A distanza di anni, ci si imbatte, ANCORA, in procedimenti disciplinari che limitano di fatto la libertà di espressione; si assiste ad un progressivo svuotamento del ruolo delle rappresentanze, relegando i Cocer alla funzione di comparse nei processi decisionali; si limita il diritto associativo garantito e protetto dalla Costituzione e da Convenzioni Internazionali.
E’ quindi arrivato il momento, che la politica rifletta seriamente sui guasti che, tali limitazioni, hanno avuto e stanno avendo nel mondo militare, dove, a fronte di un crescente malessere rispetto alle proprie condizioni sociali ed economiche, i militari vivono ancora in una sorta di apartheid dei diritti.
Ma, un ulteriore riflessione, dovrebbe portare la classe politica a ragionare sulla necessità di “ascoltare” questa categoria, dando impulso a riforme democratiche e partecipate. Insomma, in un periodo di forte crisi e di erosione della fiducia dei cittadini nelle Istituzioni e nei partiti, occorre che la classe politica la smetta di “navigare a vista”, rimandando dall’oggi al domani, decisioni improrogabili.
Non è più possibile che, per non incrinare fragili equilibri di coalizioni di governo o per non turbare i sonni degli apparati di vertice, non si mettano in gioco idee propositive all’altezza delle sfide del nostro tempo. Come se si potesse ancora andare avanti per forza di inerzia ed il Paese potesse vivere ed operare al di fuori delle traiettorie evolutive che caratterizzano la società. Anche quella militare.
Negli anni 70, una grande mobilitazione e partecipazione interna alle caserme, portò la politica a misurarsi e a confrontarsi con istanze per lo più sconosciute. Ci furono dibattiti e convegni che riempivano le sale di centinaia di cittadini militari. Fiorirono iniziative editoriali, si organizzavano audizioni parlamentari….Insomma un terreno di “coltura” che andrebbe rivitalizzato, anche attraverso l’apporto del mondo associativo che, nella società, esprime occasioni di confronto e strumenti di partecipazione che, spesso, all’interno delle caserme non trovano opportunità di affermazione. Anche per ridare slancio, vitalità e spessore alla attività stessa della rappresentanza e di chi vi fa parte.
Un modello rappresentativo, come l’attuale, non risponde più a quei principi costituzionali che, pur se sono trascorsi 60 anni, mostrano di essere molto più adeguati e lungimiranti rispetto a leggi più recenti. E sicuramente, c’è molto da imparare dalle modalità con le quali sessant’anni fa venne approvata la nostra Costituzione e dal clima di quegli anni, che spinse le tre principali anime dell’Assemblea Costituente, quella cattolica, quella social comunista e quella liberale, allora estremamente lontane fra loro, a concordare sulle regole fondamentali del vivere comune, in nome di un obiettivo più alto.
Ritrovare quello spirito, è una necessità, ampliando gli spazi democratici; per costruire un Paese più civile e fondato sui valori della pace e della solidarietà.
A tutto ciò, possono e debbono contribuire anche i cittadini militari, perché anche essi sono attori della politica non solo quando votano, ma anche nella vita quotidiana. Ed hanno il diritto di difendere, al pari degli altri cittadini, i loro interessi che, per la funzione da essi svolta, coincidono con quelli del Paese.
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Ho voluto riproporre queste mie riflessioni, partendo dalla vicenda del Maresciallo Comellini, a cui va la mia personale solidarietà perché, al di là della condivisione o meno delle idee e proposte di cui ognuno di noi è portatore, il caso di Comellini dimostra sostanzialmente che 60 anni di diritti costituzionali rappresentano, per tanti cittadini militari, un traguardo ancora lontano.
E questo è assolutamente inaccettabile.
Un’ultima annotazione: anche se la piena applicazione dei diritti è compito delle Istituzioni, ciascuno di noi, ogni giorno, in ogni situazione può dare il suo piccolo, individuale, quotidiano contributo, mettendo in risalto i casi e le storie in cui i diritti sono applicati in modo esemplare oppure denunciando le violazioni a cui assiste o subisce. E’ un dovere a cui non dobbiamo sottrarci.
ANTONELLA MANOTTI
Direttore de Il Nuovo Giornale dei Militari