LA PRODUTTIVITA’ DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E’ IL RENDIMENTO GIUDICATO DAI CITTADINI - di Valerio Talamo
LA PRODUTTIVITA’ DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E’ IL RENDIMENTO GIUDICATO DAI CITTADINI - di Valerio Talamo
da http://www.eticapa.it/eticapa/?p=1604
Pubblichiamo il contributo qualificato di Valerio Talamo, dirigente responsabile dell’Ufficio relazioni sindacali del Dipartimento funzione pubblica, sulla materia della valutazione delle performance e sugli esiti della “riforma Brunetta” varata con il decreto 150/09. La tesi esposta da Talamo può essere riassunta con l’affermazione della necessità primaria di introdurre effettivamente la valutazione della “performance collettiva, che è quella che interessa gli utenti dei servizi pubblici“, liberando contestualmente la normativa della d.lgs 150 dagli eccessi propagandistici contro il personale pubblico “fannullone per decreto”.
Eccessi che, alla fine, hanno provocato una reazione conservativa che ha di fatto arrestato il cammino dell’introduzione di una valutazione sul rendimento delle Amministrazioni pubbliche “giudicato dai cittadini”
NEL PUBBLICO IMPIEGO LA PRODUTTIVITÀ SI CHIAMA "RENDIMENTO" GIUDICATO DAI CITTADINI (OVVERO, COME LA VALUTAZIONE DELLA DIRIGENZA NE FAVORIREBBE L’AUTONOMIA)
di Valerio Talamo
Una vulgata molto nota, precorsa da letteratura non scientifica, vorrebbe le pubbliche amministrazioni inefficienti a causa del proprio personale, “fannullone” o “nullafacente”. Sulla base di questo assioma, l’ultima riforma del lavoro pubblico (realizzata nel 2009 dal ministro Brunetta) pare ispirata da un’ansia di moralizzazione meritocratica, che a volte diviene quasi ossessione.
Dare alla PA italiana la missione di “servire il Paese” e non più se stessa è un intento lodevole, sia detto senza reticenze, anche perché questo coraggio era mancato perlomeno nell’ultimo decennio. Tuttavia i problemi delle pubbliche amministrazioni paiono poco riassumibili in una formula, ed altrettanto complessa pare la definizione di soluzioni realistiche, cioè destinate a divenire fatti concreti.
Sembra evidente, per esempio, che porre al centro della problematica il personale, ignorando strutture, organizzazione e funzioni (ma anche, per rimanere sul personale, l’importanza di un’adeguata politica di formazione, un turn over decente e periodico per favorire il superamento della gerontocrazia degli apparati, una razionale definizione dei carichi di lavoro e del personale fra le varie sedi ecc..), rischia di eludere il problema, mentre individuare quale nemico dell’efficienza in modo generico il dipendente pubblico, rischia solo di eccitare conflitti sociali che si traducono in guerre fra “poveri”.
Secondo i sindacati di categoria, anzi, i tagli che hanno portato al congelamento della contrattazione collettiva dei pubblici dipendenti (per un quinquennio e senza prevedere alcun meccanismo di recupero dell’inflazione maturata o in corso di maturazione!) e le ulteriori decurtazioni della retribuzione accessoria, sono state artatamente preparate da una vera e propria campagna di delegittimazione del lavoro pubblico: il dipendente pubblico “inefficiente” viene perlopiù percepito come percettore di privilegi sconosciuti al settore privato (come la stabilità dell’impiego).
Il punto è che, da qualunque prospettiva la questione voglia essere affrontata, nel pubblico impiego agiscono alcune condizioni di contesto che rendono la materia poco incline a semplificazioni, generalizzazioni, crociate ideologiche, pena il fallimento di qualunque tentativo credibile ed equo di riforma, nell’interesse del Paese.
E’ di evidenza solare, per esempio, che nel settore pubblico pare completamente obliterato il conflitto di interessi fra parte datoriale e sindacale, soprattutto a livello decentrato, mentre a livello nazionale la contrattazione, più che sindacale è (solo) politica e viene gestita dai Governi (in sede di allocazione delle risorse) in sedi e con i soggetti diversi rispetto a quelli immaginati dalle leggi (che a tale riguardo avevano appositamente costruito un soggetto “terzo”, l’ARAN, tecnico e separato dalla politica).
La maggior parte delle amministrazioni cede di fonte alla pressione sindacale perché non ha alcun interesse a contrapporvisi. La dirigenza, soprattutto, non realizza quel conflitto di interessi la cui mediazione dovrebbe generare consenso sulle regole, come avviene nel settore privato. Per esempio in sede di contrattazione integrativa la corresponsione della retribuzione di produttività è quasi sempre ceduta a pioggia e senza contropartite. La dirigenza ricerca spesso nel sindacato quell’appoggio, alternativo e suppletivo a quello della politica, funzionale alle proprie fortune professionali.
Questa logica pare appena scalfita dall’ultima riforma del lavoro pubblico. Una riforma un po’ sfortunata, per buona parte ineffettiva, e ciò per tre ragioni: 1) è alquanto teorica in vari punti (se volevano cancellare la burocrazia, varie norme del decreto 150/2009 sono tecnicamente imprecise e non di rado… burocratiche); 2) è stata boicottata da amministrazioni e sindacati, per interesse o per pigrizia; 3) è stata infine "disinnescata" da contro-riforme che sono iniziate pochi mesi dopo il suo varo. In sintesi, al di là dei difetti di impostazione della riforma, secondo alcuni ideologizzata, è parsa decisiva la resistenza delle alleanze favorevoli alla conservazione dell’esistente.
Oggi la riforma Brunetta opera quasi come legge “manifesto”, cioè enuncia una volontà con voce forte, quasi consapevole che la stessa rimarrà solo un monito ma favorirà anche, nel lungo o medio periodo, un’evoluzione di comportamenti e costumi. Per esempio in tema di valutazione dei rendimenti, di responsabilizzazione forte della dirigenza (chi se non lei può incarnare e sostenere un genuino conflitto di interessi?), di delimitazione dell’area di intervento della contrattazione collettiva contro la cogestione sindacale dell’organizzazione del lavoro.
E’ forse è questa la strada da proseguire: ma senza eccessi giacobini ed altre normazioni palingenetiche (per carità !). Sul piano della performance, per esempio, non ha senso pretendere che sia valutata ogni figura in servizio (anche quelle di più basso livello), né ha senso farlo attraverso griglie rigide di merito, quelle specie di selezioni darwiniane che nelle attuali inapplicate norme ipotizzavano la collocazione obbligatoria del personale in tre fasce in cui la fascia più bassa (un 25% dei dipendenti pubblici) era costituita da dipendenti “inefficienti per legge” e, quindi, esclusi dalla retribuzione accessoria. Norme che avrebbero moltiplicato conflitti organizzativi ed un contenzioso senza fine.
Occorre, piuttosto, incidere sulla performance collettiva (che è quella che interessa gli utenti dei servizi pubblici) e rendere responsabile fino in fondo il dirigente. Indispensabile a quest’ultimo fine pare un’effettiva (e non nominale) separazione dell’amministrazione attiva dall’ingerenza della politica, con la contestuale esclusione degli arbitrari poteri che tuttora quest’ultima esercita in tema di nomina/conferma/revoca/promozione agli incarichi.
Politica, sia detto per inciso, che ha tutto l’interesse a vanificare nei fatti ogni forma di valutazione, in modo da mantenere la dirigenza soggiogata ai propri arbìtri. Essa sa benissimo che una valutazione effettiva (non quella pletorica e formale che si svolge oggi) costituirebbe elemento di freno, in quanto attrezzerebbe un reale controllo sociale che opererebbe da bilanciamento al potere sovrano dalla stessa politica esercitato.
Solo in questo modo potrà funzionare anche la performance individuale, perché se il dirigente sa che le proprie fortune professionali non dipendono dalla consonantia con il politico di turno, ma dai rendimenti della propria unità organizzativa, e quindi dalle valutazioni dell’utenza (cittadini e imprese), inizierà a valutare anche i propri collaboratori, utilizzando tutti gli strumenti in proprio possesso. Ciò sempre nella consapevolezza che la valutazione deve diventare una cultura e non un adempimento burocratico, né può essere solo funzionale all’erogazione dei premi al merito.
Luglio 2013
VALERIO TALAMO