CORTE DI CASSAZIONE: PARAGONARE ALLA GESTAPO L’UFFICIALE DELLA GUARDIA DI FINANZA CHE VESSA IL PERSONALE DIPENDENTE NON E’ DIFFAMAZIONE MA ESERCIZIO DEL DIRITTO DI CRITICA (Una vicenda personale) di Giovanni Surano

sabato 21 giugno 2014

 

Con sentenza del 13 giugno 2014 la Corte di Cassazione – 1^ Sezione Penale - ha posto fine a una penosa vicenda, iniziata in una caserma della Guardia di finanza nel lontano 8 febbraio 2007 e proseguita nelle aule di giustizia militare in un nebuloso procedimento penale durato ben oltre sette anni. Una sentenza che offre diversi spunti di riflessione su tematiche quanto mai attuali, come il discusso e controverso rapporto gerarchico militare applicato ad un corpo di polizia e l’inutilità di una magistratura domestica qual è quella militare, ripiegata su se stessa, cieca e sorda rispetto a principi costituzionali che la Carta garantisce a tutti i militari.

Ripercorrendo i fatti dall’inizio, bisogna partire proprio da quel giorno di febbraio del 2007, quando sul forum del sito internet ficiesse postai un messaggio che narrava fatti a mio giudizio di inquietante gravità, commessi dai comandanti p.t. di quel reparto ai danni dei subalterni. Si diceva che in quel reparto il comandante disponesse dei veri e propri blitz a sorpresa negli uffici per rilevare le momentanee assenze del personale, anche di quelle dovute al servizio ovvero scaturite da bisogni fisiologici, e che tali assenze dovevano poi essere giustificate dagli interessati presentandosi personalmente al superiore. Quel comandante ce l’aveva pure con chi durante l’orario di servizio consumava furtivamente uno spuntino, per cui mangiare un cracker, una mela o un panino, era per lui talmente inaccettabile al punto che passando per gli uffici pensava bene di dare una ravanata ai cestini gettacarte alla ricerca della “prova” del pasto fuori programma. Altri fatti accadevano in quella caserma, come l’indebito impiego di un finanziere parzialmente invalido in gravosi turni allo stadio, nonostante il Comando Generale lo avesse destinato alla sola attività in ufficio. Insomma quel messaggio apparso sul sito internet narrava questi fatti e criticava aspramente gli autori associandoli alla “Gestapo”.

Cosa fecero gli ufficiali appena letto il messaggio?

Avevano due possibilità: denunciare il fatto alla Procura, con il rischio di divulgare ai quattro venti fatti e circostanze poco edificanti e che con ogni probabilità sarebbero divenuti (come in effetti è accaduto) massime di giurisprudenza penale, oppure, molto più saggiamente, stendere un velo pietoso sull’immediato risentimento e con un salutare esercizio di autocritica rivedere certi atteggiamenti nella c.d. “azione di comando”.   Naturalmente optarono, incautamente, per la prima ipotesi, quindi con il messaggio “diffamatorio”, partirono alla volta della Procura militare di Bari, ben consapevoli di essere gli autori dei fatti raccontati in quel messaggio. Ma l’onore andava salvaguardato.  A cosa pensassero e di cosa discutessero in quell’ora e mezza di viaggio da Lecce a Bari mi sarebbe piaciuto saperlo. Forse confidavano nel fatto che trattandosi di giustizia militare quei fatti raccontati nel messaggio i giudici si sarebbero guardati bene dall’accertarli e magari avrebbero accentrato l’attenzione solo sulla critica a quei fatti, non perché la giustizia militare avesse altre regole processuali rispetto alla giustizia comune, ma perché se veniva definita la “giustizia dei capi” qualche diavolo di motivo ci doveva pur essere, questo forse avranno pensato. Ed avevano ragione. In effetti questo avvenne: in primo ed in secondo grado i giudici, con disarmanti omissioni processuali, respinsero più volte la legittima richiesta della difesa dell’imputato, quindi pronunciarono sentenza di condanna senza verificare quello che in realtà accadeva in quella caserma. Secondo loro non c’era bisogno di verificare i fatti per stabilire che l’epiteto “Gestapo salentina” oppure la frase “atteggiamento violento e persecutorio” contenuto nel messaggio incriminato avesse oltrepassato il limite della continenza, in quanto l’offesa, a insindacabile giudizio delle toghe militari era, come dicevano i romani, in re ipsa.

Una giustizia medievale li avrebbe accertati quei fatti, i giudici militari no.

Qui apro una parentesi. Mi chiesi: chi sono e cosa fanno i giudici militari? Cercai di saperne di più per capire con chi mi stessi rapportando, e senza portarla in questa sede tanto per le lunghe dovetti scoprire innanzitutto che non erano assolutamente ufficiali delle FF.AA. come inizialmente mi trovai a credere, o meglio, c’erano anche gli ufficiali nel collegio giudicante, ma c’era soprattutto la parte togata che rappresentava la maggioranza, vale a dire magistrati nel vero senso della parola. La materia mi appassionò così tanto che non ebbi alcuna remora ad approfondirla, con ricerche, studi, arrivando al punto da confezionare dei veri e propri articoli per Ficiesse che iniziarono ad interessare anche alcuni organi di informazione nazionali e rappresentanti delle istituzioni, i quali come me si chiedevano se nel terzo millennio, con tutti i problemi legati agli sprechi nella pubblica amministrazione, aveva ancora senso mantenere quest’anacronistico organo di giustizia. Ringrazio a questo  proposito la dottoressa Anna Maria Greco de “Il Giornale”, la dottoressa Eloisa Covelli de “Il Punto”, il professor Fabio Ratto Trabucco dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ed ovviamente gli amici di Ficiesse come Giuseppe Fortuna e tanti altri che non sto ad elencare, come pure alcuni deputati del nostro Parlamento, per essersi interessati ai miei scritti e per aver attivamente dato seguito ad essi e condiviso una battaglia che probabilmente finirà solo con l’abolizione della giustizia militare. Mi convinsi insomma, insieme agli amici che ho appena elencato, che giudici che trattano mediamente sessanta cause l’anno costituiscono uno spreco per lo Stato, e che con tutte le carenze che si registrano oggi nella giustizia (quella con la G maiscola) una soluzione poteva essere quella di abolire la magistratura militare con “travaso” dei 58 giudici militari in quella comune, penale o civile che fosse. Ma il motivo fondamentale a prescindere da quello strettamente numerico dei carichi di lavoro era costituito dal fatto che notoriamente la giustizia militare offre meno garanzie all’imputato (soprattutto quando la contesa è tra superiore e subalterno) e solitamente la parte che soccombe è quella priva di torri e stelle.  

Tutto questo accadeva nel corso del defatigante processo penale militare che mi vedeva imputato.   

Riprendendo il discorso interrotto, come dicevo, una giustizia medievale mi avrebbe dato più garanzie di quella militare. L’inquisitore medievale prima di condannarmi avrebbe verificato i fatti a sostegno delle critiche rivolte agli ufficiali, ed una volta accertata la loro veridicità, chissà, forse mi avrebbe pure assolto. La giustizia militare no. Ma per fortuna esiste la Corte di Cassazione, ultimo (nel mio caso non ho alcuna remora a dire anche “unico”) baluardo di legalità. Sicché, come il povero mugnaio di Potsdam, mi affidai all’ultimo giudice, convintomi che solo da esso potevo ottenere giustizia: in primo luogo perché la Suprema Corte decide attingendo a principi di diritto ricavati dalla Carta costituzionale e non ai pregiudizi, ed in secondo luogo perché alla Cassazione di salvaguardare il preminente “rapporto gerarchico” tanto caro ai giudici militari non può fregare di meno. La giustizia si amministra avendo cura che la bilancia sia in perfetto equilibrio, dove da una parte ci sono i fatti e dall’altra la legge, questa è la linea della Cassazione come pure di tutti i tribunali ordinari del nostro Paese, salvo rare e soggettive eccezioni.

La Corte di Cassazione ovviamente trovò da obiettare su quella strana sentenza della Corte militare d’Appello, tanto da annullarla con rinvio ad altra Sezione affinché si celebrasse il c.d. Appello-bis, che avrebbe dovuto sanare tutte le omissioni che il Supremo consesso aveva rilevato nei vari gradi di giudizio, in primo luogo, manco a dirlo, l’accertamento della veridicità dei fatti narrati nel messaggio incriminato.  I giudici di Piazza Cavour fecero capire garbatamente ai giudici militari che i fatti descritti nel messaggio dovevano essere assolutamente accertati e solo all’esito di tale accertamento si poteva valutare se le espressioni indirizzate agli ufficiali avessero superato il limite della continenza o meno, posto che il diritto di critica sancito dall’articolo 21 della Costituzione è riconosciuto anche ai militari della Guardia di finanza. La Suprema Corte si spinse oltre, statuendo che anche l’espressione “Gestapo salentina” riferita agli ufficiali, per quanto forte, poteva assumere altra valenza rispetto a quella diffamatoria laddove nel giudizio di rinvio fosse stato accertato l’indebito impiego di militare disabile da parte dei due ufficiali. Più chiaro di così.

All’appello bis, celebrato il 19 novembre 2013, i testimoni raccontarono tutta la verità e di questo li ringrazio di cuore, ma la caparbietà e il pregiudizio di quei giudici erano più forti delle verità appena accertate, ma soprattutto erano più forti del principio di diritto statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza di rinvio. Per farla breve, si limitarono a ridurre la pena a due mesi di reclusione, ritenendo che comunque quel messaggio era diffamatorio in ogni caso, anche nonostante i gravi fatti accertati. Sicché con una sgangherata sentenza che per un verso riconosceva l’atteggiamento violento e persecutorio dei due ufficiali nei confronti dei militari subalterni e per altro verso, contraddittoriamente, ribadiva il concetto degli altri gradi di giudizio e cioè che le frasi incriminate erano in ogni caso diffamatorie, ho avuto gioco facile nel ricorrere nuovamente in Cassazione, dove finalmente ho ottenuto giustizia il 13 giugno 2014.

La parola finale è spettata a loro dunque, ai giudici di Cassazione, come è giusto che fosse (mai avrei consentito che fosse coperta dal giudicato una farneticante decisione di merito di simile portata) e la massima che è venuta fuori dal travagliato percorso giudiziario, che altro non fa che ribadire concetti che dovrebbero essere già noti anche se talvolta maldestramente manipolati, statuisce il seguente principio di diritto: accostare per metafora alla Gestapo un ufficiale della Guardia di finanza che ha commesso vessazioni e persecuzioni nei confronti del personale dipendente, addirittura impiegando indebitamente un militare disabile, non può costituire offesa nei confronti di quell’ufficiale ma esercizio di un diritto di critica che la Costituzione riconosce anche ai militari della Guardia di finanza. Ci son voluti cinque gradi di giudizio e sette anni e mezzo di processi per capirlo, quando sarebbe stato sufficiente un rapido ripasso della nostra Costituzione che all’articolo 21 recita testualmente: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, così come sarebbe stata sufficiente un’attenta lettura dell’art.51 del codice penale sostanziale che recita: “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità”.

Vallo a spiegare alla giustizia militare.

 

Giovanni Surano

Sez. Ficiesse di Lecce

giovanni.surano@libero.it


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